• Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

Le nostre Storie

di Edoardo Fiorini
Neo vescica

PROVA DEL NOVE

PREFAZIONE

“Se pò mai stà in pas!”. “Non si può mai stare tranquilli!”… Allora è vero che non è mai troppo tardi per dire “carpe diem”, la scelta filosofica della mia vita futura.

A quattro anni dalla pubblicazione del mio “Gh’era on fioeu….” rieccomi al tavolo per scrivere un nuovo capitolo della mia vita. Il titolo è: “La prova del nove” e si ispira evidentemente alla verifica dell'esattezza di un'operazione matematica.

La prova del nove della mia vita, cioè l'evento che ha misurato la qualità del modo in cui vivevo - e fortunatamente continuo a vivere - è stato il manifestarsi di un tumore alla vescica. Era l'estate del 2012. 

Un'esperienza terribile il cui bilancio, sul piano delle relazioni umane, è tuttavia incredibilmente proficuo. Non sentirsi soli in situazioni di salute precaria è un forte stimolo per incanalare energia positiva contro il male. Durante i mesi della mia malattia ho avuto la fortuna di essere circondato dall'amore della mia famiglia e dal sincero affetto di tanti amici: quelli di sempre, ma anche tanti legami di vecchissima data, spariti per decenni e ricomparsi all’improvviso, quasi per incanto. E poi tante persone nuove. “Compagni di sventura”, medici e infermieri che si sono presi cura di me…

Oggi sto bene. Però, sebbene il tumore sia scomparso dal mio organismo, non posso dire di sentirmi tranquillo al 100%. Infatti, una volta che ci sei stato dentro, dopo che hai imparato a convivere con un tumore, anche se ne sei ripulito, lo senti sempre lì, in agguato.

È proprio questa la ragione per cui mi sento molto vicino, direi sulla stessa barca, di chi soffre oggi del mio stesso male. Ed è questa la ragione per cui ho deciso di diventare uno dei soci fondatori di PaLiNUro, Pazienti Liberi dalle Neoplasie Uroteliali. Voglio mettere la mia voce e la mia esperienza a disposizione dei nuovi malati. Sono convinto che l’informazione e la presenza concreta, la vicinanza, offrano un sostegno fondamentale sulla strada della guarigione.

In questo testo é raccolta la storia della mia esperienza, incrociata con quella di mia moglie e del chirurgo che mi ha operato e di cui sono diventato sincero amico, Massimo Maffezzini. Un amico che amo presentare come “il mio amico più intimo, quello che veramente sa “come sono fatto dentro”!

Buona lettura

Edoardo Fiorini

FIORINI!

Massimo Maffezzini

Il Fiorini, perché così si chiamava in quel momento, era un paziente.

Poi, dopo un paio di mesi, sarebbe diventato Edo: un amico dall’affetto generoso e spontaneo…

Edoardo Fiorini, dicevamo,  era il nome di un paziente e, più precisamente, del primo paziente affidato a me dal mio arrivo all’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano. Il primo intervento di cistectomia radicale, linfadenectomia pelvica bilaterale e confezionamento di neovescica ortotopica ileale continente. Così si chiama questa operazione e, dalla complessità della sua denominazione formale, se ne può intuire anche la  natura di intervento laborioso e delicato. 

Avevamo già avuto, Fiorini, sua moglie e io, un paio di colloqui nei giorni che precedevano l’intervento; colloqui che avevano lo scopo di descrivere, come facciamo sempre, le fasi dell'operazione, quali organi si asportano, e come un segmento del piccolo intestino viene riconfigurato per ricostruire una vescica che viene innestata a sostituire, imitandola,quella nativa proprio nel punto dove la natura l’aveva prevista.

Il paziente Edoardo Fiorini mi ascoltava attento e seguiva gli schemi che disegnavo sulla lavagna bianca, a muro, dei quali mi servivo per riassumere i passi essenziali dell’intervento, e per dare più chiarezza alle parole. La moglie ascoltava in silenzio le domande del marito e le mie risposte.

“Dottore ma è un intervento rischioso?” mi chiede alla fine la signora composta che ho di fronte, come è naturale che la moglie di un paziente si chieda. Per risponderle uso la metafora del viaggio, dell’automobile e del pilota: “Con  una certa semplificazione, l’esempio può essere questo: alla partenza di un viaggio insolitamente lungo le probabilità che vada tutto bene dipendono dalle condizioni dell’auto, della strada, e del pilota. Nel caso di suo marito, l’auto è stata preparata in modo specifico, la strada è ben conosciuta, e il pilota ha fatto il percorso molto spesso e con tipi di automobili molto diversi. Per cui, cerchiamo di non sottovalutare alcunché ma manteniamo un certo ottimismo, mi raccomando…”

Il pensiero mi va per un istante agli anni di Genova e ai pazienti più anziani (è la città con la popolazione di l’età media più alta del nostro  Paese) e con malattie concomitanti, cardiologiche, respiratorie,  che ho seguito, che sono stati uno stimolo a sviluppare protocolli specifici per ridurre l’impatto di interventi come questi… Riprendo il filo del discorso: “mi raccomando signora, spero che la metafora non le sia sembrata troppo ingenua…”

Lei sorride, annuisce e ringrazia uscendo.

Un paio di colloqui così, andati bene, direi. Alla fine il paziente  Edoardo Fiorini si poteva considerare bene informato, la moglie annuiva, e io avevo la sensazione di avere dedicato la sufficiente attenzione al colloquio prima dell’intervento che, va da sé, considero molto importante.

Fin qui, routine. Una routine di una certa gratificante delicatezza.

Il giorno dell’intervento tutto si svolge seguendo una successione di gesti tecnici abituali e collaudati, comprese anche varianti minori che l’anatomia di ciascun paziente da un lato, e l’approccio personale di ciascun chirurgo dall’altro selezionano nel tempo, continuamente. 

A cose fatte, completata anche  la descrizione dell’intervento al PC della sala operatoria, mi sono reso conto di essere rimasto piuttosto impermeabile all’emozione di trovarmi all’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano. Di aver fatto il mio primo intervento come membro dello staff di una struttura che avevo vistato nel 1984, per qualche mese, e che, da allora, ha fatto parte dei miei sogni… e qui devo far partire un flashback!

L’Istituto Nazionale dei Tumori negli anni ’80 era un’espressione avanzata di eccellenza nella sanità dello Stato, che all’epoca era l’unica forma di sanità esistente, dato che di sanità privata convenzionata non si parlava ancora. Un equilibrio intelligente tra ricerca e assistenza; questo era l’INT, come si presentava a miei occhi. Un’isola di avanguardia tra gli ospedali milanesi di allora, “un’isola di America in Italia” questa era la definizione con cui  lo descrivevo in modo sintetico. Appariva chiaramente il vantaggio culturale di un Istituto monotematico dedicato all’oncologia: una esposizione quotidiana alla patologia che in Istituto era oggetto di approfondimento multidisciplinare (questo termine non aveva allora la diffusione attuale) e di ricerca mentre negli Ospedali convenzionali l’oncologia, lo studio e la cura dei tumori, a quel tempo, non aveva ancora raggiunto  un interesse prioritario.

C’erano quindi tutti i presupposti perché l’entusiasmo di un giovane  nemmeno trentenne e da poco specializzato in Urologia fosse colpito in pieno centro. Al punto di decidere di prendere una seconda specializzazione:  in Oncologia, ovvio.

La  mia breve permanenza in Istituto mi aveva messo davanti a un aspetto in quel momento nuovo per me, ovvero: lo strumento con cui si cresce professionalmente è  l’esperienza, la quale è inevitabilmente soggettiva; tuttavia, si  può ottenere una crescita assai maggiore se sostenuta da un confronto continuo con la letteratura specializzata internazionale, dalla partecipazione ai congressi e dall’ideazione e realizzazione di protocolli di ricerca clinica. Tre semplici tappe: conoscere, interrogarsi, e (ri)cercare le risposte. Negli anni di allora l’INT iniziava a lasciare tracce internazionali in numerose patologie.

Fino a prima di frequentare l’Istituto, l’interesse per  la qualificazione e per l’attività di ricerca  mi avevano fatto sognare di restare a lavorare stabilmente in Università ma, ahimè, in quel momento l’Università non bandiva concorsi assunzione, perché era satura di personale anzi, spesso in esubero di personale, spesso neanche molto qualificato... (è evidente che la crisi di oggi ha radici lontane, lontanissime; ma non addentriamoci qui).

All’INT avevo capito che potevo trovare qualificazione altissime, attività di ricerca  anche al di fuori dell’Università, ma… ma anche lì non c’era posto: persino uno come il Dr. Roberto Salvioni che oggi dirige il reparto, era precario, a contratto…

Me ne andai confuso e dispiaciuto, inutile dirlo: ma perché mai uno non può scegliere il posto dove lavorare… è un’ingiustizia!

E adesso ero qui! 1 Marzo 2013: il giorno del sogno… Facevo parte dello staff!

Ma torniamo al paziente Edoardo Fiorini.

Generalmente, dopo l’intervento accadono eventi naturali negli organi, complessivamente un laborìo meticoloso e prolungato di cellule che devono tornare alla piena attività che precedeva l’intervento, di organi che devono riprendere la sintesi proteica, cuciture che devono saldarsi e, allo stesso tempo, di farmaci che devono contrastare e ridurre lo choc  che fa seguito all’intervento chirurgico, all’apertura dell’addome e persino alla sola anestesia. Questo è il modo, l’unico, ripetitivo e uniforme  con cui la natura risponde spontaneamente a un trauma, a una violazione. In altre parole, che si tratti di un incidente stradale, di una ferita di guerra o dell'aggressione di un animale,  la natura tenta tutte le possibilità intervenendo prima di perdere una qualsiasi vita. La natura protegge la vita fin all’ultimo istante, nel mammifero, pesce o uccello che sia, sempre in un unico modo: ferma tutto. Peristalsi, assorbimento, metabolismo e sintesi. Si rinchiude concentrandosi nel solo cuore, respiro e cervello primordiale, è solo lì  che si concentra il sangue. È lì che si mantiene un’attività residua ermetica, sigillata intorno  agli automatismi primordiali, quelli governati da quella parte del cervello che qualcuno chiama rettileo,  perché è presumibilmente il primo che si è formato nella storia della vita sul pianeta, e sopra il quale ne sono cresciuti altri,  nelle creature più evolute,  via via,  a strati sovrapposti.

Così per milioni di anni fino a che non è successo qualcosa che la natura non prevedeva, ovvero… sono arrivati i chirurghi! E non solo i chirurghi: gli anestesisti rianimatori, senza i quali non ci sarebbe mai stata la chirurgia, e anche i farmaci. Oggi quello che cerchiamo di fare  è semplicemente: ridurre l’intensità e la durata del “black out”,  accelerare il riavvio di alcune funzioni e assicurare sostegno alle mille suture dalle quali dipendono le sorti della neo-vescica e del paziente.

Questa descrizione è una semplificazione e un’accelerazione di quanto succede. Ha lo scopo di rendere più chiaro ciò che verrà nelle righe successive della storia del paziente Edoardo Fiorini.

Generalmente, dicevamo, succede così….ge-ne-ral-men-te, attezione!

Poi ci sono le volte in cui qualche cosa va in modo diverso dalla maggior parte dei casi, in cui, insomma, qualcosa va storto e compaiono le complicazioni. Eccone alcune: il tessuto cucito ha qualche microscopica magagna; il filo chirurgico delle cuciture si strappa prima del tempo, prima di avere trattenuto accostati e immobili i tessuti sui quali il tessuto di guarigione, la cicatrice, si sia sviluppata completamente saldando le fessure; il tessuto di guarigione non cicatrizza nei tempi soliti,  è in ritardo, o incompleto; un microbo che la fa in barba a tutti gli antibiotici si pianta sulla parte operata o sulla ferita addominale, o nei polmoni, e produce un’infezionaccia; in una vena lontana si forma un grumo che ingrossa fino a otturare,  formando una tromboflebite;  un gruppo di canalicoli della linfa si indispettisce per tutti i linfonodi tolti dall’intervento e spande ancora linfa fino a formare un sacchetto, il linfocele,  che schiaccia gli organi vicini…

Ahimè, nel tempo ho capito che per quanto odiose e mortificanti le complicanze sono inscindibili dalla biologia.

Nei giorni successivi all’intervento, il paziente Edoardo Fiorini mostra i segni iniziali del processo di guarigione. Indubbiamente rallentato dal peso lasciato dalla chemioterapia pre-operatoria, ma pur sempre visibile. Routine.  Anche dal punto di vista emotivo il suo viso è bianco, certo, ma gli occhi hanno riguadagnato in fretta la sua espressione di bambino curioso che era sua,  e riprende a sorridere: Fiorini è un ottimista. Un ottimista sereno. Leggete il suo “Gh’era un fioeu, nò serom in tanti” e capirete meglio cosa intendo.

Ma come sempre la fortuna - e la sua distanza - da noi possono fare la differenza.

Arriva il tempo in cui si possono sfilare i tubicini che vengono sistemati all’intervento per guidare all’esterno, temporaneamente, residui di sangue e siero o pipì. Il giorno in cui sfilo uno di questi tubicini mi pare tutto bene. Routine. Salvo che qualche momento dopo Fiorini mi raggiunge nel locale infermieri del reparto e mi chiede se di tubicini ne abbiamo tolto uno solo o entrambi. E rispondo che  se ne toglie uno per volta  “come può vedere, no?  Controlli e vedrà che l’altro è ancora lì che sporge ne sacchetto…”  ma, controllando ci accorgiamo che l’altro tubicino non si vede proprio. Una volta tolto l’altro, che decorreva parallelo, questo deve essersi retratto scivolando all’interno. E, generalmente, non succede. Be’, superata la sorpresa, riaccompagno Fiorini in camera e gli dico che controlliamo meglio con un’ecografia. Incontro in corridoio due colleghi ai quali spiego l’accaduto: “Succede una cosa insolita: si dev’essere retratto uno stent – veramente raro che succeda -  e vorrei fare un’ecografia”.  Sono lì da pochi giorni e non so ancora orientarmi bene nella vita del reparto e chiedo “Come posso fare?”. Uno dei due risponde:  “C’è il numero di telefono lì!”, indicando con il mento di là dalla porta della sala infermieri. Lì, nella sala infermieri, c’è effettivamente un foglio appeso alla parete con i numeri telefonici di vari interni ma non mi riesce di trovare quello dell’ecografia. Esco in corridoio a chiedere maggiori indicazioni ma non c’è più nessuno: il corridoio del reparto, anonimo, inanimato, e scarsamente illuminato.

Arrangiamo comunque un’ecografia, che conferma: lo stent è lì, subito sotto la parete addominale. È chiaro: bisogna ri-aprire la ferita e sfilare lo stent. Il che implica, ahinoi, il ritorno in sala operatoria.  Non è nulla di urgente, pertanto,  programmiamo di farlo l’indomani mattina.  Spiego tutto e subito al Fiorini.

“Va bene Dottore!” risponde con tranquillità, ma l’espressione delusa e abbattuta, è molto visibile. E lo siamo anche noi, abbattuti e delusi: riportare per la seconda volta in sala operatoria  un paziente per un imprevisto, pur banale  come questo… è il colmo!

Anche se il Fiorini ha capito e cerca di sorridere, io sento un’ amarezza scendermi  lungo l’esofago e poi dilatarsi nello stomaco…

E quindi, si ritorna in sala operatoria, si riprende lo stent, si lascia un drenaggio e si torna in reparto…. porco cane!

Fiorini si riprende, e la sua guarigione  ricomincia dove si era interrotta.

Ma non è finita ancora…

In un momento in cui tutto sembrava avviato piuttosto bene, dal drenaggio addominale compare liquido trasparente, giallastro che tende ad aumentare via via nei giorni successivi… è pipì, non ho dubbi.

Una fistola è assimilabile ad una perdita in una conduttura.

Le condutture di cui stiamo parlando in questo caso sono, ovviamente, anatomiche, come l’intestino, un tubo che contiene materiale semiliquido e semisolido, l’uretere, un altro tubo, che contiene materiale liquido,  o trachea e bronchi, altri tubi, che contengono aria.  Quindi una fistola è una perdita in un tubo il cui contenuto  si riversa direttamente o indirettamente all’esterno.

Nel caso di Fiorini, la perdita é nel punto in cui uno dei due ureteri era stato cucito  sulla neo-vescica. Le conseguenze potenziali sono dovute al danno chimico che le sostanze tossiche presenti nelle urine possono produrre sui delicati tessuti con cui vengono a contatto. Il tempo di contatto è intuitivamente un altro fattore che contribuisce all’instaurasi del danno. La fistola compare quando la formazione del tessuto di guarigione è incompleta e, pertanto, non si forma completamente il tessuto cicatriziale di guarigione sull’estremità dell’uretere e sull’intestino tenuti accostati dalla cucitura confezionata all’intervento. In generale, quanto più la quantità di urina che sgocciola è limitata tanto più è probabile che si risolva senza un ulteriore intervento.

Con il Fiorini è andata proprio così: la fistola si è chiusa spontaneamente…

In quei giorni, inutile dirlo, i miei pensieri sono incentrati sulla fistola del Fiorini. Riesco  comunque a mantenere una dose sufficiente di ottimismo sulla soluzione del caso e provo a distrarmi ma, anche fuori dall’ospedale, è come lottare contro la forza di gravità, prima o poi si torna sempre lì: a Fiorini e alla sua fistola ure-te-ro-i-lea-le-des-tra-a-a-a.

 Anche il sonno, inutile dirlo, ne risente: “Chissà Fiorini?…”prima di addormentarmi e .."Fio-ri-niii!” appena torno lucido al risveglio.

Una volta in reparto è il primo paziente che vado a vedere, è quello che controllo più spesso nella giornata. Non solo per accertarmi che la quantità d’urina dal drenaggio diminuisca progressivamente, perché è questo che deve succedere con le fistole come queste, a bassa portata. E ci sono i presupposti che fanno prevedere che sarà così anche con il Fiorini. Intanto cerco di stargli vicino, di trasmettergli la presenza di un’equipe consapevole e dedicata che conduce a soluzione anche casi come questi, e anche peggio di questi… i casi in cui la fortuna si  è allontanata, seppure per poco, io credo.

E così ho potuto conoscere meglio il Fiorini.

Un uomo sereno, sensibile, intelligente e educato. Ecco che mi sono uscite nell’inchiostro, quattro caratteristiche che sono comuni tra le persone che ammiro, e che sono felice se penso che possano far parte del mio  microcosmo.

Abbiamo una scarsa differenza d’età e  la passione della musica da ragazzi ha esposto  ciascuno di noi alle stesse influenze musicali. Siamo entrambi “figli del rock”, in senso lato.  Scopro che anche lui è un chitarrista e che di chitarre ne possiede quattro o cinque. Suona con passione i Beatles e ha tradotto gran parte dei testi dei loro successi… in milanese! Lass’andà (Let it be), Piazza Bausan (Penny Lane), ‘ntonella (Michelle),  Ier te see (Yesterday), ecc…

Suona con un gruppo di amici, anche loro tra i 50 e i 60 anni d’età, e anche loro innamorati persi dei Beatles. In più non ha paura di esibirsi anche da solo. Fenomenale un tipo così, no?

Racconta tutto con semplicità  gli ritorna finalmente l’espressione da bambino curioso e divertito a un tempo, che è proprio la sua. Anche io  mi sento meglio, ovvio…

Ma non è ancora finita!…

Dopo qualche mese dalla dimissione,  la stagione ormai è bella, è iniziata l’estate che quell’anno lì è stata bellissima. Edoardo passa a salutarmi prima di partire per le vacanze all’Elba che aspettava da tempo. Sta bene. Recupera peso, e sorride. Continenza: ok per lo più, salvo dettagli che, con quel tipo di ricostruzione sofisticata, possono essere presenti ancora per i primi mesi. Il “serbatorio”, la sacca che gli abbiamo costruito, deve adattarsi. Deve espandersi aumentando la capacità e, di riflesso, permettere di allungare gli intervalli tra uno svuotamento e quello successivo. E poi deve smettere di produrre muco. Sì, perché tra le cellule che rivestono l’interno dell’intestino, la tappezzeria del tubo, ce ne sono alcune che producono muco, biancastro e semidenso, e che serve a facilitare la progressione del contenuto intestinale sulla spinta della peristalsi. Perché la mucosa intestinale “dimentichi” l’abitudine a produrre muco ci vuole un certo tempo, in genere è questione di pochi mesi. Tuttavia, nei casi in cui il muco è particolarmente denso, essendo più pesante dell’urina, si deposita sul fondo della neovescica e può addirittura ostacolarne lo svuotamento.

Fiorini sta bene.  Ci salutiamo e siamo felici tutti e tre, Fiorini, la moglie ed io, che possa finalmente allontanarsi da Milano per andare in vacanza. Prima di uscire mi mette in mano un pacchettino sorridendo… "Questo è per lei!”

Uno dei giorni in cui era ancora in reparto, mentre stava guarendo la fistola, gli ho detto di essere chitarrista anche io. Dilettantaccio, è chiaro,  ma chitarrista. E che in quel momento faticavo  ostinato su alcuni brani di folklore brasiliano, meno noti e, per me, piuttosto impegnativi. Apro il pacchetto curioso e… un iPod su cui ha caricato musica brasiliana: “Ci sono incise nove ore di canzoni che ho scaricato per  lei da internet…” mi dice sorridente e divertito. Sono sorpreso: non il solito oggetto convenzionale … penso alle ore che ha impiegato per me, e mi scatta un abbraccio… Raro che mi succeda con i pazienti, questione di contegno, ma succede di frequente con gli amici, anzi, frequentissimo.

Ci lasciamo con una mezza possibilità che io passi dall’Elba in barca, in uno dei miei allenamenti in solitario, oppure addirittura con Roberto, come abbiamo già fatto un paio di volte…

Le solite cose riprendono. Io sono aspirato in un vortice di ambulatori generali, cartelle, ambulatori specialistici multidisciplinari, endoscopia ambulatoriale, attività chirurgica, attività di reparto, guardie giorno, guardie notte…

Non ero più abituato, me ne accorgo subito. Sono stato primario per 12 anni. Ho vissuto fino a ieri al di fuori da questi obblighi. Ne ho avuti altri, quelli della responsabilità di un reparto dapprima e di un dipartimento poi. Qui in Istituto ho dovuto affrontare un bel  passo indietro è vero, ma era l’unico modo per entrarci.

Sono motivato! Anche se non è possibile ritornare primario, anche qui, in Istituto, la prospettiva per me è di quella dare vita a una sezione di Chirurgia Urologica Pelvica dedicata alla chirurgia dei tumori della prostata e della vescica. Sono motivato: nella mia visione del mondo, la mia weltanschaaung, considero più stimolante la responsabilità di una sezione nell’INT MI che una posizione di primario di un reparto generale in un Ospedale Generale, ed è per questo che sono qui. Pertanto, so che il vortice della routine quotidiana avrà un termine!

Fatto sta che passa un mese, credo, non ne passano due e… una mattina suona il cellulare ed è la voce di Edoardo e mi dice che é dovuto andare all’Ospedale di Porto Ferraio perché non riusciva più a svuotare la neo-vescica ed è stato necessario posizionare un catetere. “Ma, Massimo,  non voglio disturbarti; tu ci sei anche in questi giorni di vacanze?”

Mmm…ri-ten-zio-ne a-cu-ta d’u-ri-na…

In questi casi le possibilità sono due. Una, la più frequente, che si sia depositato muco denso sulla base della vescica, nel punto in cui l’imbuto si stringe e che abbia funzionato da “tappo di muco”, così lo chiamiamo nel nostro gergo, impedendo proprio come un tappo alla neovescica di svuotarsi. 

L’altra, meno frequente, che il tessuto di guarigione della cucitura tra la nuova vescica e l’uretra - il tubicino che porta la pipì dalla vescica all’esterno, lungo il pene -  sia cresciuto in modo esuberante e abbia creato una strettoia, che chiamiamo stenosi. Se è così, la soluzione è asportare la cicatrice esuberante con uno strumento endoscopico: si sale lungo l’uretra con un endoscopio con la telecamera e la luce e, raggiunta la strettoia, si asporta tutto il tessuto che sporge e che ha creato la stenosi.

 Ci sarebbe un’alternativa, ovvero, introdurre cateteri di calibro crescente ottenendo così una dilatazione progressiva della stenosi. Anche se piuttosto diffusa non è la mia soluzione preferita perché, nella maggior parte dei casi, la dilatazione induce piccole lacerazioni che a loro volta guariscono con il tessuto di guarigione e la stenosi si ri-forma molto spesso.

Arrivato il Fiorini in reparto mi rendo conto che nel suo caso è la seconda possibilità, la causa del blocco è la stenosi. Ha un catetere di calibro assai più sottile di quello che normalmente si usa, ergo, il passaggio è ristretto e ha potuto attraversarlo solo un catetere sottile…

Ok, affrontiamo il problema! Racconto tutto e subito al Fiorini e alla moglie. Ascoltano, riflettono, e capiscono che è un intervento di portata di gran lunga minore del primo, e anche del secondo. “Ma questo è il terzo - sbotta il Fiorini - ma sono così sfigato!?”

“Non prendiamola così, dai,  considerala una seccatura, certo, ma non un vero problema e soprattutto senza conseguenze gravi. E poi è vero che ti dà lo scorno di dover tornare in sala operatoria,  ma è un intervento endoscopico, contenuto, e dal quale si guarisce in fretta...”

Cosa potevo dirgli? Che  la stenosi è relativamente infrequente dopo un intervento come il suo? E che di casi così è il secondo che mi capita dal 1996?

Mannò, va’!

Nota Conclusiva

Da allora Edoardo ed io, abbiamo passato serate piacevoli insieme. Ho conosciuto meglio anche Lucia; e  Federico, loro figlio, e Giulia, la sua giovanissima moglie.

A un anno esatto dal giorno dell’intervento eravamo noi cinque in una vecchia trattoria milanese a festeggiare il primo compleanno della sua neovescica…

CAPITOLO I

I PRIMI SINTOMI

Dopo tanti anni di vacanze al mare, nell’agosto del 2012, mia moglie Lucia e io abbiamo deciso di trascorrere una settimana in montagna. Abbiamo raggiunto Bruno, il fratello di Lucia, e sua moglie Marina a Nova Levante, nella zona del lago di Carezza, nella parte del Trentino Alto Adige caratterizzata dalla massiccia presenza del Latemar, lo spettacolare gruppo montuoso dolomitico. Siamo alla vigilia della partenza; il fresco, la pace e le belle passeggiate con pantagrueliche mete gastronomiche mi hanno riconciliato con la vita, lo stress delle ultime settimane di lavoro è ormai completamente dimenticato. Mio cognato ha organizzato un’ultima grigliata serale. 

Dopo l’aperitivo davanti a un tramonto mozzafiato, ci prepariamo per la cena. Prima di sedermi a tavola, tuttavia, avverto il bisogno di espletare una piccola impellenza fisiologica. Negli ultimi tempi, questo frequente bisogno di andare in bagno è diventato veramente fastidioso.

“Ma che ca…!!!!”. È difficile spiegare la sensazione che provo quando, al posto del solito liquido paglierino, vedo zampillare dalla mia carne un imponente getto di sangue, color rosso vivo. Stupore? Paura? Perplessità? Incredulità? Non so. Non sono un piagnucolone; piuttosto un chiacchierone, uno che non è capace di tenersi le cose per sé. Così esco dal bagno e racconto preoccupato agli altri quello che mi è appena capitato. Sì, perché preoccupato lo sono!

Dopo un attento consulto, decidiamo[1] che, appena tornato a Milano, mi sottoporrò a un controllino. Per stasera, non ci penso più, complice un’altra grande abbuffata copiosamente bagnata da cascate di Lagrein.

Torniamo all’Elba, per completare le nostre vacanze; per fortuna quello spiacevole episodio è poco più di un ricordo. Le grandi nuotate, le uscite in barca, le piacevoli serate con gli amici mi hanno aiutato a rimuovere. Peccato per il fastidioso bisogno di fare pipì a ogni piè sospinto… Eppure sono sicuro di aver problemi di prostata, perché sono solito fare gli esami del PSA ogni semestre e l’ultimo l’ho fatto a fine giugno, nemmeno due mesi fa. Forse ho un problema di cistite, comunque da quella sera in montagna fortunatamente non ho più avuto nessuna perdita di sangue. Anche l’urinocultura che prudenzialmente ho fatto quando sono rientrato a Marina di Campo non ha evidenziato che qualche trascurabile traccia di infiammazione.

Sì, va bene, ma non si può continuare a vivere pensando solo alle malattie e ai disturbi fisici. Si rischia di diventare ipocondriaci e di essere tenuto alla larga da tutti, tacciato anche di essere un po’ rompipalle, un po’ iettatore. L’estate deve continuare e concludersi al meglio con tutte le cose che ci si aspetta da una bella vacanza.

LUCIA

Ultimamente ne ha sempre una! Sapevo che gli uomini quando vanno in pensione diventano delle piaghe, ma qui mi sembra che stiamo un po’ esagerando. Oltre allo spavento della pipì rossa lo vedo trascinarsi come un vecchietto, sembra che abbia un sacco di anni in più, non vuole neanche scendere in paese in bicicletta e cammina come una persona sofferente. Certo, tendenzialmente, come la maggior parte dei maschi, la mette sempre giù molto dura anche per un semplice raffreddore, ma questa volta mi convinco sempre di più che ha qualcosa.

CAPITOLO II

GLI ACCERTAMENTI

Il ritorno in città è molto tranquillo. Il lavoro, come un vecchio treno a vapore in partenza, stenta a prendere velocità. È passata la prima decade di settembre ma ancora buona parte dei miei referenti delle varie aziende clienti/fornitori ritarda gli impegni programmati. È un modo di lavorare che non mi piace più. Non fa parte della mia cultura e delle mie esperienze professionali. Fortunatamente ho in ballo alcuni progetti personali che mi divertono e mi danno soddisfazione. È da qualche anno, infatti, che, per dar corpo alla mia creatività, ho iniziato a svolgere piccole attività di beneficenza a favore di questa o quella organizzazione. Per la fine del 2012, sto realizzando un CD contenente le più belle canzoni natalizie, da me tradotte in dialetto milanese che saranno interpretate da diversi artisti, tutti amici che si prestano gratuitamente alla preparazione di questo lavoro che dovrebbe concludersi a novembre, con una presentazione presso il Circolo Filologico Milanese, seguita da un Concerto Natalizio presso l’aula magna dell’Istituto dei Tumori di Milano.

Con l’amico Gianfranco, coproduttore del CD, abbiamo completato la masterizzazione a fine luglio e ora mi devo occupare solo della parte esecutiva: grafica, SIAE, stampa e consegna.

Comunque so che devo anche andare a fare due chiacchiere col mio medico curante con cui ho tra l’altro un cordiale rapporto di amicizia. Giancarlo, persona molto attenta e precisa, pur avendomi tranquillizzato, mi ha dato l’indirizzo di un buon urologo di sua fiducia raccomandandomi di tenerlo aggiornato sugli esiti della consultazione.

L’unica volta che ho visto un urologo in vita mia è stato a sedici anni, quando sono stato operato di fimosi. A sessantadue anni mi picco di non essere mai passato sotto la disonorevole “prova del dito medio”. Devo anche dire che, solo al pensiero, la parola “catetere” mi suscita un’incontrollabile ondata di terrore. Però, a volte il destino si prende veramente burla di te e ti sopraffa, non curandosi dei tuoi sentimenti e delle tue paure.

L’urologo in questione è un medico in pensione che ha mantenuto la docenza presso il Policlinico di Milano e che esercita ancora, un paio di giorni alla settimana, in uno studio dove mi riceve.

Dopo la anamnesi viene così il momento della mia “prima volta”.

Mi fa coricare in posizione fetale sul lettino ambulatoriale e, non appena calati gli slip, mi penetra con un grosso dito incappucciato e ben lubrificato. Non è affatto piacevole. Come potevo immaginare quella sorta di “ravanamento” è fastidioso e imbarazzante, anche se fatto con gentilezza e perizia. Insomma, non è amore!

La prostata è a posto, anche se leggermente ingrossata. A titolo cautelativo e senza nessuna urgenza, mi chiede di sottopormi a un’ecografia all’addome e di fare degli esami delle urine per verificare la presenza di cellule tumorali. L’esperienza e la competenza di questa attempata persona contemplano anche gli aspetti psicologici della questione. Mi dice infatti di non allarmarmi più del dovuto in quanto questi approfondimenti sono solo di carattere precauzionale e che, con ogni probabilità, avranno esito negativo.

Così, forte anche di queste rassicurazioni, non corro a farmi fare l’impegnativa da Giancarlo e, anzi, dedico le due successive settimane a fare ben altro; finché proprio lui non mi sollecita per prenotare l’ecografia.

L’appuntamento è per venerdì prossimo alle dieci del mattino.

Dopo l’esame, abbiamo fissato un incontro con Daniela e Paolo, dei carissimi amici, per fare colazione insieme. Proprio ieri sera Daniela ha confessato a Lucia che le è stato diagnosticato un tumore alla mammella e che avrebbe piacere di parlarne con noi perché è molto spaventata e non sa che cosa fare.

Per fortuna l’attesa allo studio medico è breve; il tecnico, anzi la tecnica, mi riceve quasi subito. Denudato della camicia, maglietta sollevata e braghe e slip abbassati, vengo cosparso di liquido gelatinoso ed esplorato a fondo dalla sonda a scansione lineare che la dottoressa fa scivolare e spesso spinge a fondo nelle mie parti molli.

È una di quelle persone che ti parlano: “Qui, nel rene sinistro, c’è un po’ di renella… Cerchi di bere molto, potrebbe darle qualche fastidio… le coliche renali sono piuttosto antipatiche… Ma guarda! Nella vescica c’è un papilloma. Due centimetri e mezzo per uno e mezzo. Non si preoccupi, glielo tolgono con un colpetto di laser!”

Le ultime parole famose…

Quando arriviamo da “Sissi”, Daniela e Paolo sono già arrivati. Davanti a una tazza di cappuccino cremoso, assaporando una deliziosa brioche, comprendo per la prima volta il vero senso delle parole condivisione e partecipazione. Sono arrivato qui per dare comprensione e solidarietà a un’amica, e invece me ne torno a casa carico di parole d’incoraggiamento e conforto.

A questo punto mi sottopongo con urgenza all’esame per la ricerca delle cellule neoplastiche nelle urine. Che purtroppo è positivo.

Torno con gli esiti scoraggianti nello studio dell’urologo. Mi richiede di sottopormi a una TAC, mentre lui inoltrerà le mie generalità al Policlinico per la convocazione e il prericovero. Mi spiega che il papilloma sarà rimosso con una Turb, un intervento in endoscopia, in pratica non un vero e proprio intervento chirurgico. I medici avranno accesso alla mia vescica attraverso il “mio più caro amico”… altro che cateteri!

Una volta eseguita la TAC, analisi complete alla mano, decidiamo di fare una visita di confronto (decidiamo in due ma la visita, naturalmente, la devo fare sempre io) all’Istituto dei Tumori.

Ad accogliermi, è un medico veramente speciale.

Inserisce il CD della TAC nel suo computer e facciamo insieme un viaggio all’interno del mio corpo. Arrivati a destinazione (vescica), conferma quanto già sappiamo. In più, però, mi spiega che alla vescica non esistono tumori benigni. Rimane da stabilire il livello di gravità, che andrà verificato solo attraverso l’esame istologico delle parti asportate durante l’intervento endoscopico. Il livello delle profondità d’infiltrazione del tumore nei tessuti della vescica determina l’importanza del cancro.

Purtroppo, i tempi di attesa per questo tipo d’operazione sono piuttosto lunghi anche all’Istituto: se dovesse mettermi in lista adesso, potrebbero passare diversi mesi prima di essere convocato. Mi consiglia quindi di proseguire con la struttura per cui sono già in lista d’attesa. Se la diagnosi confermasse un carcinoma infiltrante, mi suggerisce di ripresentarmi in Istituto in quanto, di fronte a una situazione seria, i tempi di attesa si accorcerebbero notevolmente.

Prima di congedarmi, mi domanda se sono fumatore. Quando gli rispondo in senso negativo mi dice: “Questo tumore si presenta spesso a fumatori o a persone che si sono esposte a coloranti a base di anilina. Noi due siamo quasi coetanei, io sono un fumatore accanito… è veramente incredibile constatare che, alla resa dei conti, queste patologie attacchino persone come lei e non persone come me!”. Che cosa strana, anch’io ho già avuto modo di fare questa riflessione e credo che la risposta debba essere trovata nella battuta di un noto cabarettista: “La fortuna è cieca ma la sfiga ci vede benissimo!”

“E -aggiungo io - ha pure una mira della Madonna!”.

Oramai sulla porta. Il chirurgo mi tende un foglietto del suo ricettario sui cui ha scritto il numero di telefono del suo interno: “Mi raccomando, si faccia vivo in caso di brutte notizie!”

Appena fuori dell’Istituto, da buon ex-venditore, abituato per deformazione professionale a fare la “retrovisita” dopo ogni trattativa commerciale, faccio il bilancio di questo incontro: a parte la correttezza e l’esaustività delle informazioni di taglio tecnico, è stata un’esperienza soddisfacente sul piano umano. Ho sentito, per la prima volta, di non essere solo nel ginepraio di panorami clinici che si prospettano per l’imminente futuro.

LUCIA

Il professorone del Policlinico non mi è piaciuto molto. Dado è molto frastornato e passivo. L’appuntamento all’Istituto l’ho preso io perché non ho dubbi su dove bisogna andare per un altro consulto… e così lui si convince. Il parere di esperti che operano solo queste patologie per me è molto importante. Lui è molto fatalista e pensa che un posto valga l’altro. Naturalmente gli nascondo di avere ricevuto la telefonata di conferma della data del prericovero, altrimenti difficilmente sarebbe venuto. A questo punto, usciti dallo studio dello specialista, gli comunico che il lunedì successivo deve entrare al Policlinico per gli esami.

CAPITOLO III

IL PRERICOVERO

Le scadenze sono alle porte: la presentazione del CD al Circolo Filologico Milanese è fissata per sabato 27 ottobre, mentre il prericovero sarà lunedì 29.

Forse per una sorta di preoccupazione nascosta o di presentimento, sento il bisogno di mantenere fede alla data del 3 dicembre, per il Concerto all’Istituto dei Tumori, con o senza la mia presenza.  È così che penso di mettere al corrente dei miei problemi di salute una persona in cui ripongo la massima fiducia e stima professionali, Luca Toccaceli, manager dei Teka P, gruppo musicale emergente nel panorama della musica dialettale milanese. Anche per metterlo con le spalle al muro, davanti al pubblico del Filologico, gli propongo di sostituirmi nella presentazione della manifestazione natalizia. Come prevedibile Luca accetta con entusiasmo anche se è anche lui in attesa di essere convocato per un’operazione di ernia inguinale. Così, anche se mi dà la sua disponibilità non si sente sicuro al cento per cento di essere, a sua volta, presente personalmente. Comunque da serio professionista e da uomo d’organizzazione quale è,  mi garantisce comunque che lo spettacolo si farà, con lui, o con una valida sostituzione dell’ultimo minuto.

In ogni caso, l’incontro con gli amici del Filologico è come sempre molto piacevole. In queste occasioni, vengono consegnate le copie omaggio agli artisti che hanno collaborato alla realizzazione dei miei lavori. Partecipano inoltre persone che sono attive al Circolo con attività ricreative o di studio e ricerca, in prima linea c’è sempre la mia amica Alma Brioschi, responsabile della sezione dialettale. Ci sono poi, naturalmente tutti i miei amici. Anche questo incontro è estremamente piacevole. L’atmosfera però è un po’ diversa dal solito; percepisco per la prima volta intorno a me una nota di calore e un affetto particolari. Forse i partecipanti sono preoccupati per il mio futuro. Così, più che presentatore di un momento di intrattenimento, mi sento protagonista di questa avvolgente ventata d’amore.

Arriva il 29, giorno del prericovero. Prendo un taxi per essere in ospedale alle sette di mattina, pronto per tutti gli esami di routine. Dopo l’incontro con l’anestesista, concludo le analisi con la visita di una giovane dottoressa, che segue la stessa prassi del vecchio urologo: chiacchierata al tavolo e poi, dulcis in fundo, penetratio analis. Comincia a diventare un’abitudine! Meno male che, in questo caso, le mani del medico sono piccole e sottili! 

Alla fine del consulto mi dice che sarò convocato per l’intervento entro un paio di settimane. Nel frattempo, dal momento che manifesto il perdurare dei disturbi tipici della cistite, mi prescrive un’ulteriore urinocoltura.

CAPITOLO IV

IL PRIMO INTERVENTO

Sapendo di avere questo appuntamento, da conciliare con il lavoro, messi da parte i problemi di salute, concentro gli impegni professionali nei giorni che ho a disposizione.

Vado così a visitare un importante cliente e sbrigo alcune pratiche in ufficio. Prima di sera mi ricordo anche di fermarmi in farmacia per acquistare il contenitore per l’esame delle urine.

È la mattina del 31 ottobre. Sono passate da poco le sette. Sono in bagno e cerco ripetutamente di riempire il barattolino ma dal mio prepuzio si ostina a non uscire niente. Lo stimolo a urinare è forte, dopo qualche minuto di continui sforzi esce soltanto qualche goccia di… sangue. Porca Eva.

Scatta l’allarme, cosa facciamo? Lucia chiama prontamente un taxi che, vista l’ora, riesce a portarci velocemente al pronto soccorso del Policlinico.

Ho sentito dire, o forse ho letto da qualche parte, che di notte, con i primi freddi, le sale d’attesa dei pronto soccorso dei nostri ospedali si riempiono di senza tetto. Quando arriviamo nell’ampio androne dell’ospedale rimango tuttavia sorpreso nel vedere la quantità di barboni che sono ancora lì, in procinto di alzarsi dopo una bella dormita ristoratrice.

L’impiegato allo sportello mi fa tutte le domande del caso, quindi devo subire un’interminabile attesa, spezzata solo da una rapida visita medica. Intanto la tensione della mia vescica comincia a diventare un grande disagio. Faccio training autogeno per rimanere tranquillo. Non è facile, quando si ha un carattere emotivo come il mio. Alla fine, non so quanto tempo dopo, mi caricano (solo me!) su un’ambulanza che mi porta rapidamente al padiglione Cesarina Riva, il reparto urologia.

Anche qui mi fanno attendere. C’è un continuo andirivieni di gente: infermieri, medici ma anche persone che devono essere visitate o subire qualche trattamento. Dopo qualche minuto mi raggiunge Lucia che ha fatto a piedi il breve tratto dal pronto soccorso al reparto urologia. A questo punto la mia vescica sta per esplodere, e rimanere fermo sulla sedia, in attesa, è diventato un vero problema. Chiedo della Toilette e faccio qualche altro tentativo… macché, non esce proprio niente! Un’attempata infermiera con modi molto carini e gentili mi conforta, assicurandomi che è in arrivo un medico per porre fine alle mie sofferenze. Finalmente un giovane medico arriva. Giovane, deciso e capace… eccoci all’incontro con il mio primo catetere.

Il medico, coadiuvato dalla buona infermiera mi fa una rapida ecografia; quindi, senza alcun indugio mi prega di rilassarmi al massimo mentre m’infila un maxi catetere che, al di là del doloroso fastidio, ha sicuramente il pregio di liberarmi da un’enorme quantità di liquido color cocacola. Ora, a vescica svuotata, sto decisamente meglio anche se il catetere mi dà parecchio fastidio.

Quando informo il dottore che ho già fatto tutte le analisi previste nel prericovero vengo ricoverato in reparto in attesa di essere operato con urgenza. Potrebbe accadere anche questo stesso pomeriggio, dato che sono anche a digiuno da ieri sera. Questo “colpo di c…” potrebbe verificarsi solo se un intervento già programmato dovesse saltare, altrimenti dovrò aspettare fino a dopodomani, perché domani è il primo di novembre e non si opera.

Sono già alcune ore che mi hanno infilato questo cavolo di catetere e il fastidioso dolore non intende diminuire. Lo faccio presente all’infermiere e all’anestesista, che mi accolgono e mi spostano su un lettino diverso da questo con cui sono stato portato in sala operatoria dove mi asporteranno il papilloma. Mi chiedono di sedermi, facendo penzolare le gambe da uno dei due lati. Mi mettono un cuscino sulla pancia e mi chiedono di stringerlo fra le braccia chinando in avanti la schiena: “Si rilassi e vedrà che tra un attimo non lo sentirà più.” È il momento in cui inizia a fare effetto l’epidurale.

L’anestesista aveva ragione: dopo pochi minuti, non solo non sento più il catetere, ma perdo la sensibilità nella parte inferiore del mio corpo. Sono coricato su un lettino in posizione ginecologica e la mia visuale è completamente coperta da una barriera di teli. Mi hanno protetto con una coperta termica ma sento lo stesso un freddo agghiacciante, al punto che cercano di scaldarmi con una specie di phon che mi getta addosso aria calda, che però non migliora la mia situazione. Il team di medici intanto si dà da fare. Sento le voci confuse di persone che lavorano allegramente, scambiandosi battute e piccandosi di essere dei veri “ghessi[2]” in questa pratica. Tuttavia, a un certo punto, intuisco che non sono soddisfatti. Infatti il chirurgo che pocanzi ha affermato di essere tanto bravo mi si avvicina e mi dice: “Abbiamo cercato di pulirla al meglio. La massa è penetrata a fondo nel tessuto e non sono riuscito a togliere tutto. Dovremo probabilmente tornare a operarla tra qualche giorno”.

Con questa bella prospettiva ritorno nella mia stanza.

La cosa positiva è che tutto è successo così in fretta da non permettermi di pensare e tantomeno di provare sentimenti vicini alla paura.

La cosa negativa é che ora devo aspettare l’esame istologico e che devo comunque essere rioperato. Se fossi un chiaroveggente, o anchesolo una persona più sgamata, capirei già da qui che non c’è bisogno di aspettare l’esame istologico per sapere che il tumore si è già infiltrato e che quindi, a questo punto, sono solo all’inizio del tunnel. Purtroppo sono un semplice paziente ignorante!

 L’aggettivo “infiltrato” mi è stato insegnato dal buon chirurgo incontrato all’Istituto dei Tumori. Durante quella breve visita mi ha spiegato che la scala con cui viene misurata la gravità della malattia va dal grado T0  (libero da tumori) a T4 (Tumore con metastasi diffuse). Questa informazione diventerà spiacevolmente utile in una fase successiva di questo racconto.

Man mano che l’effetto dell’anestesia si dissolve, torna a farsi sentire il fastidio del catetere. Con la cadenza di circa ogni sei ore mi provoca addirittura forti e dolorosissime contrazioni e spasmi. In alcuni momenti sento addirittura il bisogno di gridare per il dolore. Così, ogni volta, stringo i denti e cerco di soffrire in silenzio… Anche se non mi riesce benissimo. In più di un’occasione chiedo di somministrarmi degli antidolorifici che tuttavia non migliorano di molto la situazione.

LUCIA:

Che giornata pazzesca! Chi se lo sarebbe mai immaginato ieri che cosa ci sarebbe capitato oggi! È stato un giorno interminabile di paura e tensione. Dado è più o meno pronto per la notte. Se non fosse per quei terribili spasmi che ogni tanto lo colgono, direi che ha sopportato bene l’intervento. Mi ha ventilato questa cosa che lo dovranno rioperare… ma avrà capito bene? Per adesso non pensiamoci. È giunto il momento che io e nostro figlio Federico lo salutiamo e torniamo a casa. Mangiamo qualcosa mentre ci raggiunge Giulia, la sua ragazza.

Il mio compagno di stanza di chiama Ciro, napoletano verace. Lavora al Ministero dei Beni Culturali ed è restauratore. Un uomo di grande cultura e di grande umanità anche se, d’acchito, mi dà l’idea di essere un po’ altezzoso e chiuso in sé stesso. Insomma un napoletano un po’ al contrario. Ciro ha subito un intervento di prostatectomia radicale robotica, tecnica in cui il computer fa la parte del leone. L’unico forte problema post operatorio è un sovraccarico di aria intestinale che il povero Ciro al momento non riesce assolutamente a espellere. Ma quando ci riesce…!

Malgrado la prima impressione, dopo un giorno di convivenza siamo già amiconi. Pur avendo subito un intervento più importante del mio, Ciro ha la forza di volontà ammirevole. Sono passate dodici ore e lui è già in piedi che si dirige verso il bagno per darsi una rinfrescata. Quando rientra in camera è stravolto. Dopo un po’ di tempo, le infermiere mettono in piedi anche me. Ho un improvviso calo di pressione e crollo a terra come un fico; Ciro è il primo a soccorrermi.

Quando mi vengono gli spasmi[3] il mio compagno di stanza mi consola dicendomi: “Edduà, scusami se mi giro dall’altra parte ma mi fa così male vederti soffrire!”.

Che uomo.

Ciro viene dimesso domenica in tarda mattinata. Io il giorno seguente. Giuriamo di rimanere in contatto anche perché le nostre due consorti si sono fatte un po’ di compagnia in questi pochi giorni di degenza.

Torno a casa ancora attrezzato di catetere, fra tre giorni dovrò tornare in ospedale per toglierlo. Mi hanno ben istruito su come gestire le sacche di raccolta urine da letto o da gamba e sono in condizione di gestire serenamente la mia convalescenza.

Il responso dell’esame istologico sarà disponibile fra un paio di settimane. Sarò convocato al momento giusto per il responso (o la sentenza?) finale.

Qualche giorno dopo le dimissioni ricevo la telefonata di Daniela, una giovane amica dottoressa che lavora all’Ospedale Sacco. Ha saputo di me dai suoi suoceri, nostri carissimi amici, ed è rimasta addolorata e sorpresa dal fatto che non l’abbiamo consultata. In realtà è un periodo che ce ne capitano di tutti i colori, a noi direttamente o a parenti stretti o amici. Ogni volta abbiamo fatto ricorso al suo aiuto ma, sebbene sia  un’amica tanto disponibile e cara, a tutto c’è un limite. Così, questa volta, oltre a non volere abusare del suo tempo, siamo arrivati anche un po’ a vergognarci per la nostra sfortuna. Per queste ragioni non l’abbiamo consultata. Daniela invece è quasi offesa e mi fa promettere che in caso di esame istologico positivo faremo ricorso a lei, anche perché ha un carissimo amico che lavora in urologia all’Istituto del Tumori.

Dieci giorni dopo l’intervento vengo convocato per il ritiro del referto.

Alle 17.00 siamo nello studio del giovane medico che per primo si era preso cura di me. L’ansia è tanta. Il dottore ci saluta e ci fa accomodare (sempre io e Lucia, naturalmente). Lui non dice una parola ma comincia a scartabellare un plico di documenti ammassati sulla sua scrivania. Finalmente sembra trovare quello che cerca: il mio esame istologico.

Non so che tecnica sia e chi gliela abbia insegnata; comunque, senza proferire parola, mi consegna questo foglio, scritto per me in ostrogoto. C’è solo una parola che mi colpisce e che mi chiarisce improvvisamente la situazione, la parola che mi aveva insegnato l’amico medico dell’Istituto dei Tumori: infiltrato T2. A questo punto passo il foglio a Lucia indicandole la frase. A questo punto il medico interviene: “È da operare subito! Queste sono operazioni salvavita. La metto già in nota per l’intervento che sarà verso fine novembre”.

Usciamo di lì decisamente frastornati. Non penso che questo giovane dottore avrebbe dovuto dirmi delle parole di conforto, ma avrebbe potuto almeno darmi un sostegno leggermente più personalizzato. Oltre alla preoccupazione per la precarietà del mio stato di salute, adesso mi sento pervadere da un senso di isolamento e di impotenza.

Di una cosa siamo certi: domani riprenderemo i contatti con l’Istituto dei Tumori.

LUCIA

Abbiamo un’età in cui si comincia a essere abituati a ricevere delle mazzate. Sono dell’idea che bisogna subito trovare il sistema per affrontarle, principalmente rimboccandosi le maniche.

Domani si apre un nuovo capitolo di cui non sappiamo proprio niente, però ci è chiaro fin da adesso che sarà una dura battaglia da combattere. Di una cosa sono certa: chi  sarà il vincitore!

CAPITOLO V

RITORNO ALL’ISTITUTO

Sto vivendo un momento di panico.

Ci è stata comunicata l’urgenza di fare l’intervento ma non riusciamo nemmeno a immaginare quali possano essere le attese dell’Istituto dei Tumori. Quello che so è che non bisogna perdere tempo. Dopo una notte insonne, appena l’ora diventa conveniente, telefono al medico che avevo incontrato nell’ambulatorio un mesetto prima. Purtroppo parlo con la sua voce registrata nella segreteria telefonica. Gli lascio comunque il mio messaggio.

Lucia invece telefona a Daniela, la nostra amica dottoressa, con cui riesce a parlare subito. Daniela, nel giro di un paio d’ore ci procura un appuntamento all’Istituto per oggi pomeriggio con il suo amico chirurgo.

L’uomo ci fa entrare nel suo studiolo. Si toglie il camice, forse per farci sentire più a nostro agio. Esamina tutti gli incartamenti, i miei esami, e infine ci spiega l’iter previsto in questi casi dal reparto urologia dell’Istituto: quattro cicli di chemioterapia, un mese di pausa, un importante intervento per l’asportazione della vescica.

Dopo un momento di esitazione mi chiede se voglio aderire alla  sperimentazione di un protocollo per testare un nuovo farmaco antitumorale. Sono sempre stato convinto che l’evoluzione debba passare dalla sperimentazione e che non ci può essere nessun progresso senza il sacrificio di qualcuno che si sottoponga a prove di verifica. In questo momento poi mi sento così provvisorio e precario! Il fatto di aderire a questa proposta mi dà la sensazione di affidare ancora di più la mia vita al fato… e accetto la sfida. Quindi accolgo la proposta senza alcuna preoccupazione aggiuntiva.

Uscendo dall’ufficio del chirurgo, sappiamo già che nel giro di una decina di giorni un’oncologa mi convocherà per fissare il primo appuntamento per la chemio. Sono combattuto tra l’esultanza per essere riuscito a ridurre i tempi d’attesa e la preoccupazione per un percorso clinico estremamente pesante. Inoltre, il pensiero che mi venga asportata la vescica mi atterrisce. Anche se non conosco assolutamente tutte le implicazioni di questo intervento, capisco che non sarà una passeggiata.

Nel tardo pomeriggio ricevo la telefonata del medico a cui avevo lasciato il messaggio in segreteria. Gli spiego che, non avendolo trovato, ho già risolto diversamente e che adesso devo solo aspettare la chiamata dal reparto per iniziare l’iter. Rilevo stranamente nel suo tono di voce l’amarezza di chi non è riuscito a rendersi utile, perché noi, presi dalla frenesia di fare in fretta, abbiamo usato delle scorciatoie preferenziali. La cosa mi lascia perplesso: perché questa persona si è risentita? In fondo gli abbiamo solo evitato una rottura di scatole. Spesso si sbaglia nel giudicare gli altri. Evidentemente esistono ancora persone che amano il loro lavoro e che vivono la professione di medico come una missione la cui finalità è fare del bene. In questo caso il beneficiario sarei stato io.

Comunque credo che la risposta alla mia perplessità risieda propria nella prima caratteristica che avevo notato in questa persona: l’umanità. Quando si è umani, spesso si è sopraffatti dai propri sentimenti, dalle proprie passioni e debolezze… a volte anche dall’irrazionalità. Che ci piaccia o meno, questa è l’essenza dell’essere umano… ed è bene che sia così!   

Non ci resta che telefonare al Policlinico per informarli che abbiamo scelto un’altra struttura.

Luca intanto va avanti con la preparazione del concerto di Natale. La data è stata confermata per il 3 dicembre. Ormai è perfettamente padrone della situazione e ha organizzato un efficientissimo sistema di comunicazione via e-mail con i vari artisti che hanno aderito all’iniziativa. Mi mette in copia in ogni comunicazione di servizio e spesso mi telefona per chiedermi delucidazioni o i testi redazionali che gli mancano e che gli sono necessari per mettere insieme il canovaccio della sua presentazione. La sua precisione e la sua professionalità mi infondono profonda tranquillità. Con Luca sono sicuro di fare una bellissima figura! Rimane però sempre nell’aria il pericolo della probabile chiamata per la sua ernia. 

22 novembre. Eccomi qui, in reparto, per il primo ricovero.

Inizia oggi la chemio. I quattro cicli hanno la sequenza temporale “1 – 7 – 21”. L’1 sta a indicare il primo giorno di chemio: dosaggio tosto e una notte di ricovero. Sette giorni dopo è previsto un richiamo in day hospital, con un trattamento abbastanza veloce, circa un paio d’ore a seduta. Quindi, due settimane di requie, spezzate solo da un esame del sangue per la verifica dei valori principali. Al ventunesimo giorno dalla data d’inizio, riprenderò con il ciclo pesante.

Il tutto per quattro volte.

A questo trattamento si affianca poi la cura sperimentale, che consiste nel prendere due volte al giorno una pillola, senza mai interromperne la somministrazione, per tutta la durata dei quattro cicli di chemio somministrata in maniera classica, cioè in endovena.

Se non ci saranno degli intoppi, cioè se il mio fisico reggerà senza problemi, tra poco meno di tre mesi finirò. Sarà intorno al venti di febbraio.

Poi, dopo altre tre settimane di decantazione, finalmente potrò essere operato.

La previsione della degenza post-operatoria varia dalle due alle tre settimane, se tutto va bene. Successivamente ci sarà infine la fase di convalescenza con tutta una serie di interrogativi sulla mia vita futura…. ma adesso non voglio pensarci. Anzi, come ho imparato a fare nella mia precedente vita di manager, decido di approcciare questa mastodontica montagna di problemi con la tecnica dell’elefante da mangiare.  Questa tecnica risponde alla domanda: “Come si fa a mangiare un elefante?”. La risposta è molto semplice: “Facendolo a pezzi più piccoli!”

Bene, oggi inizio con la chemioterapia. Voglio concentrarmi solo su questa fase e rifiuto energicamente di affrontare qualsiasi discussione sulla chirurgia fino al raggiungimento del primo traguardo.

CAPITOLO VI

IL PRIMO CICLO NON SI SCORDA MAI

Arrivo al quarto piano del blocco E dell’Istituto dei tumori alle otto di una fredda mattina. Ho con me il mio borsone con il pigiama e gli effetti personali. Lucia mi posteggia nella zona d’attesa e va a fare il ticket. Prima di ricoverarmi devono farmi un prelievo di sangue, pertanto i tempi si allungano leggermente. Non sono solo, insieme a me aspettano altre quattro persone. Tutti uomini. Quasi tutti hanno il cranio rasato, lo sguardo perso e un’aria dimessa che sa di rassegnazione. C’è un ragazzo che probabilmente non ha ancora trent’anni. Gli altri invece sembrano più  anziani di me (over sixty).

Finalmente mi indicano la mia stanza e il mio letto. In questa camera, la numero 4, verrò ricoverato tre volte su quattro. Proverò tutti i letti, meno uno.

Entrando, i letti sono disposti due per parte. Il mio è il primo sulla destra. Di fronte alla porta d’ingresso, una a sinistra e l’altra a destra, ci sono  due enormi finestre che riempiono l’ambiente della bianca luce di questo livido cielo milanese. Nel muro libero tra le due finestre c’è un piccolo televisore agganciato a un sostegno, a circa due metri da terra. In ogni angolo c’è un alto armadio a colonna. I comodini sono affiancati tra i due letti lasciando un largo spazio di movimento necessario per la collocazione dei trespoli destinati alle flebo di preparati chemioterapici e per le eventuali manovre per medicazioni da parte di medici o infermieri. Entro salutando i miei primi “compagni di sventura”. Dirimpetto ho due giovani. Il primo, non ancora trentenne, è un giovane manager siciliano che vive a Milano lavorando come controller in una società multinazionale. Il secondo ha da poco passato la quarantina; vive in Brianza ed è un operaio. Tutti e due sono stati operati di tumore ai testicoli e sono giunti al ciclo conclusivo di chemio vivendo praticamente la stessa esperienza in modo e tempi paralleli. Per loro ogni ciclo dura tre giorni consecutivi. Oggi è il secondo. Tra i due c’è la confidenza tipica che c’è tra i fratelli. Scherzano e si prendono in giro a vicenda ma poi, quando a uno dei due sopravviene il minimo disturbo o malore, l’altro si fa subito serio, attento e preoccupato. Nel letto accanto al mio c’è un omone con problemi più simili ai miei. Viene dall’Oltrepo pavese. La sua caratteristica personale è una carica esplosiva di buonumore. Continua a parlare inframmezzando i suoi discorsi con sonore e contagiose risate. Tutti e tre sono già sotto terapia. Il loro dosatore elettronico, applicato al trespolo per i boli di chemio, produce un fastidioso ronzio. Quando ci sono problemi di continuità di flusso o i contenitori di liquido si esauriscono, emettono un fischietto intermittente che segnala la necessità d’intervento da parte dell’infermiere addetto a questa delicata mansione. Il dosatore elettronico è alimentato da un cavo che attinge energia elettrica da una presa posta al di sopra di ogni letto. L’apparecchietto ha comunque una piccola autonomia grazie a una batteria interna che permette di sganciare il cavo per andare in bagno o per andare a fare medicazioni, visite veloci o passeggiatine nei corridoi.

Il mio vicino di letto è specializzato nel partire in quarta con il suo trespolo, dimenticandosi di staccare la spina dalla presa. Puntualmente trascina a terra quanto è posto sul suo comodino o su quello del sottoscritto. Anche questo lo fa molto ridere. È diventato la mascotte della stanza. Io invece sono “quello nuovo”, il “primiparo”.

Pongo la borsa sul letto e la svuoto. In un attimo sono in pigiama e pantofole, anzi le tolgo e mi stendo sul letto. La macchinetta di uno dei miei soci ronza. Richiamata da quel suono arriva “lei”, la mitica Pina, l’infermiera specializzata nella preparazione e nella somministrazione delle chemio. Meno di un metro e sessanta di donna caricata a molla dall’alba alla fine del suo turno, tra le quindici e trenta e le sedici. Instancabile, rassicurante, affidabile e disponibile per qualsiasi necessità del degente. Confessore, ambasciatrice del conforto, ma energica nemica degli stati di abbattimento, Pina è sempre pronta alla battuta e si dà confidenzialmente del tu con i due ragazzi.

Ai miei occhi è una persona matura ma più per esperienza che per un fattore anagrafico. Anzi, pensandoci bene, non saprei nemmeno darle un’età. Mentre sostituisce il contenitore vuoto a uno dei due ragazzi mi dice: “Ben arrivato! Tra un attimo arrivo da lei.” Il ragazzo a cui ha appena ripristinato il servizio la ringrazia e le esprime gratitudine anche per avergli suggerito il “purgante dei tre oli” (olio di ricino, olio d’oliva e olio di vaselina) che l’ha completamente regolarizzato. Così scopro che la chemio può anche produrre stitichezza. Seccante!

Pina esce e torna poco dopo con una cartella contenente un questionario che compiliamo insieme. Quando termina, mi spiega che per iniziare il trattamento dobbiamo prima attendere il risultato degli esami del sangue, che arrivano solo dopo le dieci. A questo punto ecco entrare Pina nella stanza con un carrello carico di flaconi, boli e armamentari vari, tipo aghi, sonde e medicamenti di ogni genere, tutti ordinatamente riposti nei vari cassetti e stipetti che organizzano quella piccola farmacia ambulante.

Mi guarda bene le braccia in cerca di una vena polposa. Quando crede di averla identificata procede con movimento rapido e sicuro. Zac! Il gioco è iniziato.

La terapia dura fino alle diciassette del pomeriggio. Pina alterna boli di liquido fisiologico per la pulizia e la depurazione renale a flaconi più piccoli contenenti diversi preparati, prima il cortisone, poi liquido fisiologico, poi altro preparato per concludere con il cisplatino, la bomba devastante.

L’immissione nel mio organismo di tutti questi liquidi prevede un adeguato scarico degli stessi. Al fine di permettere il controllo della funzionalità renale mi viene affidato un modulo su cui devo trascrivere orario e quantità di ogni svuotamento. Per stabilire la quantità corretta mi è stato affidato un contenitore in plastica con tacche di misurazione. Nell’antibagno su tre grandi mensoloni sono riposti molti contenitori di questo tipo, tutti indicanti il cognome dei diversi pazienti. A differenza dei miei compagni di camera, che vanno in bagno ogni due/tre ore, mi rendo immediatamente conto che la mia frequenza è molto più alta. Però i miei quantitativi di urina sono molto inferiori rispetto ai loro.  La mia curiosità non mi spinge a chiedere se il problema sia legato alla dimensioni della vescica, alla sua elasticità o a quant’altro. In questa fase accetto di buon grado quello che mi capita e non intendo agitarmi con inutili dubbi. Sono sempre stato un personaggio emotivo e nervoso, tuttavia la vita mi ha insegnato che ci sono due situazioni in cui è assolutamente indispensabile stare calmi, soprattutto perché agitandosi e arrabbiandosi non si ottiene nessun effetto migliorativo. Sono i momenti che si vivono quando si è in viaggio o – come me – all’ospedale: se ci sono dei ritardi, degli annullamenti, dei contrattempi, non puoi produrre nessuna reazione positiva, anche urlando come un pazzo all’ufficio reclami. Devi abbozzare e stare calmo, tanto non cambia nulla.

Nel corso della giornata, faccio anche la conoscenza del giovane oncologo che ha messo a punto la cura sperimentale a cui ho accettato di sottopormi. Mi spiega, tra l’altro, che il nuovo preparato chemioterapico, a molecola mirata, è in grado di inibire la formazione dei vasi sanguigni che aiutano il tumore a crescere.

La giornata di ricovero passa - non l’avrei mai creduto - in modo quasi piacevole. Con i miei compagni di stanza non caliamo voce un attimo. Inizialmente il dialogo si limita tra i due compagni di lunga data. La cosa che mi sconvolge di più è che, sebbene dichiarino di soffrire di una forte nausea procurata dalla chemio, il loro principale argomento di conversazione sia il cibo. Probabilmente entrambi sono provetti cuochi così si scambiano succulente ricette a cui spesso Pina, entrando nella stanza per le sue mansioni, dà il suo contributo rivelandosi anche reginetta dei fornelli, oltre che della chemio.

Durante la giornata iniziamo anche a parlare di noi, della chemioterapia e della la fase che stiamo vivendo tutti in questo momento. Attraverso la loro testimonianza diretta, mi preparo in anticipo alla possibilità del sopraggiungere di disturbi che potrebbero manifestarsi nei prossimi mesi. A completare l’opera educativa, ricevo inoltre un opuscolo da una volontaria intitolato “La chemioterapia”, un vero e proprio vademecum informativo che consulterò anche nei mesi a venire per conoscere e per gestire di conseguenza ogni possibile effetto collaterale della cura.

La sera si preannuncia interessante. In televisione trasmettono una partita di Champions League. Gioca il Milan contro una squadra belga. Per vedere meglio metto una sedia a centro camera dove mi siedo accavallando le gambe. I miei compagni invece rimangono stesi sul letto e questo è per loro fatale. Nei primi dieci minuti della partita ci scambiamo battute in continuazione ma già al ventesimo minuto il primo piomba in un pesante sonno seguito, pochi minuti dopo, anche dall’altro ragazzo. La chemio stanca. Io reggo fino alla fine del match più per inerzia che per interesse.

CAPITOLO VII

AVANTI TUTTA CON LA CHEMIOTERAPIA

 

A casa, appena dimesso, mi sento proprio bene. Non ho nessun disturbo fisico, mi sembra tutto sotto controllo. Mi sento in forze, così vado in studio a salutare Giancarlo, il mio medico curante. All’accettazione trovo Ornella, sua moglie e segretaria. Mi dà la ferale notizia che il mio medico ha raggiunto l’età ed i termini per ritirarsi dal lavoro e quindi per andare in pensione. “Proprio adesso!” penso rammaricato. Quando dico a Ornella che sono reduce dal primo ciclo di chemio e che non ho nessun disturbo, lei raffredda il mio entusiasmo: “È solo il primo ciclo! Capita spesso che in questa fase non si avvertano disturbi. Aspetta di fare il secondo!”

Accidenti! Molto presto scoprirò che ha proprio ragione.

Come da calendario, dopo una settimana faccio la seduta di richiamo in day hospital. Mi accomodo in una stanzetta a quattro posti. Due lettini e due poltrone, tipo dentista. Prendo posto. I compagni di stanza, due uomini e una donna, sono taciturni. Ho la disavventura d’incocciare in un’infermiera macellaia: mi fa quattro buchi senza trovare la vena. Per fortuna chiama in aiuto una collega, Claudia, che al primo colpo infila l’ago nel braccio.

Nelle due ore di permanenza in questo posto c’è anche un ricambio dei compagni di stanza. Quando finalmente termino il bolo di liquido esco dall’Istituto con una strana sensazione di felicità. Lucia viene a prendermi in macchina ma potrei benissimo tornare a casa a piedi. Sto bene, sono proprio carico!

Intanto la data del concerto di Natale si avvicina. Luca mi telefona dicendomi che è stato convocato per la sua operazione di ernia giovedì 29 novembre. Il giorno seguente sarà operato e dopo avere trascorso una notte in ospedale tornerà a casa il sabato mattina, primo dicembre. Lo spettacolo è previsto per il lunedì. Gli dico che se per quella data sarò nella medesima condizione fisica di adesso potrò presentare io, anche se ho diverse remore soprattutto di taglio psicologico. Luca non ne vuole sapere. Mi dice che ce la farà, e che ci sentiremo la domenica successiva al suo intervento, ossia il giorno prima dello spettacolo. La domenica infatti mi telefona confermandomi la sua partecipazione.

Ci incontriamo all'istituto lunedì sera: lo trovo pallido ed emaciato, ma estremamente attivo. Nel “localone” attiguo all’Aula A, prende accordi ora con uno, ora con l’altro, sui tempi e le modalità di ogni intervento.

La grande aula è piena per due terzi. Con mia grande sorpresa anche il Presidente dell'istituto siede tra il pubblico. La sua intenzione iniziale, probabilmente, è  solo quella di presenziare. Poi però rimane fino alla fine. In seguito scoprirò che ha davvero gradito!

Dopo una breve presentazione di benvenuto da parte di Roberto, responsabile dell’Ufficio Relazioni con il Pubblico, il microfono passa a Luca, perfetto padrone di casa, sicuro e incisivo in ogni suo intervento. Sono seduto in prima fila e lo osservo tra l’ammirato e l’incuriosito, soprattutto quando tra un suo intervento e l’altro si appoggia con aria stanca alla parete adiacente alla porta d’ingresso: “Ce la farà? Non ce la farà? Speriamo che riesca a restare in piedi fino in fondo!”

Ci riesce. E il merito del successo della bella serata va attribuito in grandissima parte a lui. In più di un’occasione sono assalito da profondi sensi di colpa verso quell’anima lunga dagli occhi buoni. Ma l’appagante applauso finale che il pubblico gli attribuisce mi dà una mano a sedare i miei scrupoli.

Tornando a casa, ancora una volta, ho la sensazione di stare bene. Sono felice e anche un po’ frastornato. Grazie allo spettacolo ho respirato in anticipo il clima dell’imminente Natale. Ho incontrato e parlato con decine di amici, gente che è salita sul palcoscenico e gente che era seduta in platea. Per la prima volta da quando è iniziata quest’avventura ho avvertito un profondo senso di solidarietà. Mi sento accompagnato da una forza misteriosa che sempre più si fa strada dentro di me e che mi ribadisce che non sono solo; anzi, mi sembra di protagonista di una nuova forma di spettacolo da cui il mio pubblico si aspetta inderogabilmente una soluzione a lieto fine.

Trascorro i giorni successivi con la voglia di accelerare i tempi.

Ora vado quasi tutti i giorni in ufficio, dove però non rimango mai più di mezza giornata. Il lavoro non mi dà alcuno stimolo in questo periodo e quando non ci sono stimoli non c’è interesse… o viceversa!

Nel frattempo arriva a Milano mia suocera, per stare un po’ con noi, darci sostegno e per trascorrere insieme il periodo del Natale. Ha lasciato con poca convinzione l'amata isola d’Elba, dove vive con mia cognata e sua figlia perché, alla veneranda età di ottantotto anni, compiuti proprio in questi giorni, si sente di dovere dare la sua assistenza morale a Lucia, la figlia maggiore di un quintetto di fratelli estremamente eterogenei tra loro. Inizialmente le avevamo tenuto nascosto il mio problema, per non crearle un inutile turbamento ma, a tumore conclamato, abbiamo pensato fosse sciocco continuare su questa strada. In fondo nella sua vita ne ha già viste di tutti i colori. Conosce per esperienza diretta il bene e il male ed è sempre riuscita ad adattarsi a ogni situazione.

Nenne, mia suocera, si insedia nella camera degli ospiti, l’ex cameretta di Federico. S’impadronisce anche di una postazione strategica sul divano, in sala, in quanto prossima a un punto luce che le rende confortevole la lettura e che è ben posizionata rispetto alla visibilità del televisore. La lettura e la televisione sono i suoi passatempi preferiti, rallentati solo nella giornata del giovedì, quando, appuntamento fisso, si dedica alla soluzione dei rebus sulla “Settimana Enigmistica”.

Per Lucia, sua madre continua a rappresentare un importante punto di riferimento. Tuttavia negli ultimi anni è subentrato qualche problema e fa fatica a manifestarle i suoi stati d’animo più intimi, per non caricarla di preoccupazioni e ansie. È così un po’ venuto a mancare il desiderio di farle delle confidenze personali. Il vuoto di questo aspetto relazionale ha creato un grosso sconforto in mia moglie, che si sente privata dell’interlocutore di sempre per le sue confessioni e i suoi sfoghi, cosa di cui in questo momento avrebbe più che mai bisogno.

Nenne porta comunque una ventata di novità e di buonumore e questo è più che mai positivo per il nostro ristretto nucleo familiare.   

Si avvicina la data del nuovo ricovero, così decido di anticipare un evento che ineluttabilmente si verificherà da qui a poco: vado dal barbiere e mi faccio radere il capo a zero. Guardando la mia immagine allo specchio, prima di uscire dalla bottega, mi sento più adeguato al mio nuovo ruolo. La mia immagine è in sintonia con quella degli altri pazienti che da lì a pochi giorni incontrerò in istituto. 

Il 14 dicembre inizio il secondo ciclo di chemio. La prassi è identica alla precedente. Stessa camera. Nuovo posto letto, nuovi compagni… tutti nuovi!

Già da questa volta mi rendo conto che è facile confidarsi e confrontarsi con i compagni si sventura. Tra noi s’innesca magicamente un clima di confidenza assoluta. Cadono tutte le barriere e le diversità determinate dal ceto sociale, dalla provenienza regionale, dal credo politico, religioso e sportivo. Oggi non mi sento più un “primiparo”. Seppure piccola, ho anch’io ormai la mia esperienza e, oltre ad ascoltare, posso anche parlare. Sappiamo tutti che il nostro sarà l’incontro di un giorno, tuttavia ci sentiamo tutti amici per sempre. Al momento dei saluti siamo tutti consapevoli che difficilmente ci si rivedrà. Il nostro reciproco “In bocca al lupo!” è il saluto che sottintende tutto: il ciao, il fatti forza, il chissà.

Il compagno di questa tornata che più mi è rimasto nel cuore è un bel ragazzotto del sud. Calabrese. Che fatica assimilare il suo nome! Consolato. Totalmente inesistente al nord. Avrà trentacinque anni o poco più, è comunque ancora lontano dai quaranta. Sposato, con una figlia di due anni, professionista in carriera è stato colto dal tumore un paio d’anni fa ed è già stato operato e curato con successo in Veneto. Da qualche mese la malattia si è ripresentata in forma maligna posizionandosi da qualche parte nel bacinetto renale dove la manipolazione chirurgica è difficile, soprattutto in relazione alla dimensioni della massa. L’obiettivo del team oncologico dell’Istituto è ridurre il tumore per permettere ai chirurghi il loro lavoro. Consolato è accompagnato dagli anziani genitori, ospitati in una casa famiglia nei pressi dell’Istituto. Moglie e figlia sono rimaste a casa. Di carattere solare, il ragazzo ha tuttavia un temperamento instabile. Spesso si abbandona a momenti di depressione, soprattutto quando pensa alla sua bambina: “Io voglio vivere per lei! Non è giusto che cresca senza un padre!”. Il fatto che il suo fisico non reagisca molto bene alla chemio non aiuta. Prima del mio arrivo Consolato dice che ha fatto fatica a empatizzare con gli altri compagni di camera. Con me invece, sebbene io sia molto più vecchio di lui, il rapporto relazionale è molto facile. Parliamo ininterrottamente per quasi tutta la giornata del mio ricovero confidandoci paure e speranze. L’indomani, alla mia dimissione mi dice: “Prima di conoscerti pensavo che qui al nord foste tutti dei “musoni”, invece devo ricredermi. È stato un grande piacere conoscerti!” e mi abbraccia energicamente.

Ritroverò Sconsolato (come lo apostrofavo scherzosamente facendo il verso al personaggio interpretato dalla cabarettista Anna Maria Barbera) molto più avanti, perché verremo operati praticamente a distanza di una settimana.   

Durante la somministrazione del boli mi rendo conto di aver perso l’appetito. Quando la brava Rosié, l’inserviente addetta ai pasti, arriva con il plateau del mezzogiorno provo un forte senso di nausea e praticamente non tocco cibo. La perdita di appetito è molto comune ma non è necessariamente un disturbo generalizzato. In questa occasione in camera c’è un giovane rumeno che vedendo che avanzo tutto mi chiede gentilmente se può prendere il mio secondo con contorno. A differenza mia a lui la chemio ha acuito l’appetito. Mi rendo conto che ciò che ho letto in quel vademecum sulla chemioterapia corrisponde a verità: ognuno risponde alla terapia in modo diverso, con disturbi e malesseri che differiscono da persona a persona.

Torno a casa con delle pasticche antinausea e delle iniezioni che devono contribuire a non fare abbassare troppo i globuli bianchi.

Malgrado ciò, all’ora di pranzo, riesco a rimanere a tavola pochi minuti. Mi assale un forte bisogno di vomitare. Corro in bagno e subito dopo mi butto sul letto dove rimango per i successivi tre giorni. Nausea, vomito e debolezza. Tutti sintomi di routine, a detta del mio “bigino”, che anche Lucia comincia a leggere con molta attenzione per valutare quali alimenti siano più idonei e opportuni durante questo piccolo calvario.

Al quarto giorni comincio a stare meglio, mi alzo e finalmente riesco a tenere giù qualcosa. Sono poche le cose che mi sento di mangiare e il cui gusto non mi dia fastidio: uova, pesce, pollo, patate, carote, mele e pochi altri alimenti. Sono diventato insofferente agli odori. In questo periodo non so quante volte battibecco con Lucia che si ostina a tenere aperta la porta della cucina mentre prepara cibi il cui “profumo” mal tollero.

Il sesto giorno sto decisamente meglio. Il settimo sono pronto per il richiamo.

Questa volta incontro subito l’infermiera Claudia, che da vera esperta centra la vena al primo colpo. Gliene sono estremamente riconoscente.

È il 18 dicembre e fino al 3 gennaio sono libero dai boli della chemio. Il Natale è ormai vicino. A casa, Lucia cerca di darmi quella serenità che lei stessa non ha. Si sforza di rigenerare quel clima magico e aggregante in cui è meraviglioso ritrovarsi in famiglia e con gli amici più cari. In questi giorni ricevo ospiti di tutto il mondo. È un continuo andirivieni. Io sono felice, molto, ma il prolungarsi delle visite mi stanca. L’eccessivo vociare mi frastorna.

Il giorno di Santo Stefano vengono a trovarci Bruno, Marina (i cognati della montagna) con una parte allargata della loro famiglia. Tutti ragazzi belli, giovani e simpatici con tanto di due figliolette in età prescolare. Nel pomeriggio arrivano altri due bimbi. I quattro ragazzini giocano e fanno un caos infernale e sebbene io ami moltissimo i bambini, arrivo al punto di scusarmi con tutti per ritirarmi in camera dove stendermi un po’ sul letto a riposare.

Finiti i riti natalizi, mi reco a fare i prelievi del sangue di prassi e ancora una volta il mio fisico si dimostra all’altezza dell’impegno richiesto. I miei valori sono nella norma.

LUCIA

È veramente difficile convivere con una persona con questi problemi.

Cerchi di non far mai capire l’angoscia che hai dentro, di non far affiorare il tuo stato d’animo. Si sta male in due ma tu non te lo puoi permettere perché non sei il malato!

CAPITOLO VIII

TERZO E QUARTO CICLO

Alla vigilia del terzo ciclo, mi viene una specie di orticaria. Chiazze rosse disseminate un po’ dappertutto sul corpo, soprattutto su testa e schiena, che si sono ricoperte di microscopici foruncoli. Passando le dita sul capo ho la sensazione di toccare la buccia di un’arancia. Mi prescrivono un antistaminico e mi sospendono per una settimana la chemioterapia extra, quella sperimentale in compresse. Due giorni dopo la dimissione il fenomeno è completamente rientrato. Anche i malesseri post ricovero sono meno invasivi questa volta. Rimango a letto comunque per un paio di giorni anche se la nausea e il vomito sono meno feroci rispetto alla precedente seduta.

Durante il ricovero per il terzo ciclo, con i nuovi compagni di stanza ci sono spesso animate discussioni politiche per l’approssimarsi delle elezioni, che si terranno il 24 e il 25 marzo. Il disprezzo generale nei confronti dei politici ha ormai portato il malcontento a livelli di disgusto per la politica stessa. Sebbene tra noi quattro si denotino diverse tendenze degli ideali, tutti conveniamo che ormai non si fanno più distinzioni di comportamento tra gli estremi opposti del Parlamento. Due su quattro dichiarano che voteranno per il Movimento Cinque Stelle. Uno dei due giustifica la sua scelta dicendo: “Sono tutti dei buffoni e allora io voto uno che per mestiere fa veramente il clown!”. La discussione è animata… si fa per dire, perché quando uno dei quattro computerini miscelatori, attaccati ai trespoli delle nostre flebo, comincia a fischiare, torniamo immediatamente alla nostra realtà e anche delle elezioni politiche non ce ne importa proprio nulla.

In questa tornata conosco Franco. Forse non ha ancora sessant’anni. Ingegnere e costruttore viene da Avezzano, in provincia dell’Aquila. Ha portato a termine da qualche mese un importante progetto edile, costruendo in una zona residenziale un agglomerato di piccole case mono-famigliari. Appartamenti di diverso taglio, da ottanta a duecento metri quadri. Tutti con giardino e completamente indipendenti. La vendita però è in uno stato disastroso. Il fermo del mercato, come dice lui “non fa battere un chiodo!”. Scopriamo di avere entrambi le mogli originarie dell’isola d’Elba. Lui ci va ogni estate, quando accompagna la consorte nella rituale visita ai parenti. Ci ripromettiamo di vederci lì e ci scambiamo i numeri di telefono (la prossima estate ci vedremo davvero!). Come tutti, Franco mi racconta la sua storia clinica. Ha avuto un tumore del mio tipo ed è stato curato e operato originariamente in bassa Italia. Qualcosa però non ha funzionato. Il tumore è ricomparso e, a questo punto, come tante altre persone che ho conosciuto in questo periodo, è stato mandato all’istituto dei Tumori di Milano per salvare il salvabile. Mi rendo conto di quanto ascolto, ma di quanto poco assimili veramente. Siamo tutti empatici e comprensivi l’uno verso l’altro. In verità però ognuno, dopo avere ascoltato l’altro, torna a ripiegarsi e concentrasi sulla propria realtà. È una specie di terapia di gruppo. Da una parte ti permette di sfogarti, dall’altra ti fa comprendere che non sei il solo ad avere avuto questa sfortuna… e che, anzi, alcuni versano in condizioni peggiori delle tue. Franco è una persona dal carattere estremamente positivo. Grande sportivo. Fisico forte e massiccio. Ci incontreremo ancora in Istituto per almeno altre due volte nel periodo in cui sarò operato. L’ho soprannominato “roccia” perché sopporta la terapia in modo molto brillante. È uno di quelli che mangia tutto! Inoltre nutro una grande ammirazione per lui perché, per sottoporsi al trattamento, viene a Milano e torna ad Avezzano da solo. Un viaggio non semplice. Dall’Istituto deve prendere la metropolitana fino alla Stazione Centrale, poi la Freccia Rossa fino a Roma e poi il pullman fino ad Avezzano. Io, debole come sono, non ce la farei mai! Franco è stomatizzato. Gli hanno asportato la vescica e, dal momento che non hanno potuto fargli una neovescica (ne parleremo più avanti!) ora è incontinente e raccoglie le sue urine, che escono da una cannula posta sotto l’ombelico, in un sacchetto esterno, fissato al ventre con degli adesivi. Questa soluzione chirurgica potrebbe essere un’ ipotesi per il mio futuro. Forse l’intenzione di Franco è quella di sdrammatizzare e abituarmi all’idea. Pertanto continua a magnificare la sua nuova vita in cui riesce a fare tutto senza avere nessun complesso o problema fisico o psicologico. Stasera, per esempio, prima di prepararci per la notte, viene da me tutto orgoglioso mostrandomi un sacchetto di contenimento per la notte. Una specie di calza di materiale plastico lunga e stretta: “Questa contiene fino a mezzo litro!....e con questa posso fare una tirata unica fino a domattina, senza svegliarmi mai e senza alcun problema!” A questo punto gli spiego la mia teoria dell’elefante e lo prego di non parlarmi più della sua situazione perché non sono, né voglio essere, pronto per farlo.

C’è un problema nuovo che si è accentuato in questa tornata ospedaliera: quello delle vene. Sono fragili e secche e per Pina trovarne una buona per inserirvi l’ago diventa un vero e proprio lavoro da certosino. Ho le braccia piene di ematomi. Quando mi dimettono, Pina mi suggerisce di frizionarle con della crema gel a base di arnica, un’erba naturale che favorisce il riassorbimento dei versamenti e conferisce una maggiore morbidezza/elasticità alla cute in preparazione delle future punzecchiature.

Quando torno in Istituto per fare il richiamo, prego Dio perché ci sia Claudia. Arriva invece una morettina, tutta riccioli che, inaspettatamente, si rivela migliore di ogni più rosea aspettativa. Dal momento che mugugno per la difficoltà d’infilare con semplicità l’ago, mi suggerisce, in aggiunta all’arnica, di farmi degli impacchi con dell’argilla verde. Quindi d’ora in poi, fino alla fine della chemio, a giorni alterni, mi spalmo questa sostanza cremosa sopra un braccio per poi impaccarlo nella pellicola da cucina. Dopo un’oretta tolgo tutto e sciacquo. Anche questa procedura dovrebbe  servire per migliorare l’accessibilità alle vene.

Siamo a un buon punto della fase “chemio”. Presto arriverà il mese di requie precedente all’intervento. Mia suocera, che per un mese e mezzo è stata la mia dama di compagnia, è ormai pronta per tornarsene all’Elba. Le sono estremamente grato per questa vicinanza così riservata e silenziosa. Abbiamo trascorso ore e ore insieme, bruciando romanzi che ci siamo scambiati per poi commentare vivacemente. In lei ammiro la velocità di lettura. Nel tempo che io impiego per leggere un libro lei ne legge quasi due. Quando decide che è venuto il momento di ripartire mi rendo conto che lascerà un grande vuoto e le sono profondamente riconoscente per avere condiviso con me questo periodo di travaglio.

Nei giorni successivi alla sua partenza arriva inaspettata una bellissima sorpresa.

Attraverso i flutti misteriosi del mare di Internet, vengo contattato da Ubi, un amico che aveva molto rappresentato in un certo periodo della mia vita e che mi riporta improvvisamente alla memoria i bei momenti della mia adolescenza, piena di sogni e di speranze. Ubi era stato il cantante del mio primo complessino. Ci eravamo persi di vista dai nostri vent’anni per rincontrarci velocemente una volta, dopo una ventina di anni. Di fatto non ci sentiamo da almeno quarantacinque. Ubi mi scrive di essere ancora in contatto con altri due amici di allora, Adriano e Carlone. Con quest’ultimo condividevo tra l’altro il ricordo della prima esperienza sessuale. Fummo infatti “battezzati” insieme, dalla stessa ragazza. Attraverso una fitta corrispondenza e-mail spiego a Ubi la mia situazione. Poi ci sentiamo per telefono per organizzare un incontro a quattro. I tre amici hanno la consuetudine di trovarsi tutti i martedì per pranzare insieme e per raccontarsela. Sono già tutti in pensione, sebbene Ubi continui a lavorare nel suo locale “Frizzi e Lazzi”. L'appuntamento è per martedì prossimo, quando andrò a fare il prelievo del sangue in Istituto.

Mi raggiungono là mentre sono in attesa di essere chiamato per fare il ticket. Non so spiegare l’emozione che provo quando li vedo entrare: questi tre ragazzi, ormai invecchiati, nelle loro barbette bianche e con le loro vistose stempiature. Quante cose dobbiamo dirci e raccontarci? Le nostre voci si sovrappongono concitate e tutto il resto del mondo intorno a noi scompare.

Mi accorgo quasi per caso che è il mio turno. L’impiegata dello sportello mi apostrofa tra il seccato e il divertito: “State facendo più casino di un gruppo di donne al mercato!”

Mi scuso, un po’ imbarazzato: “Ci siamo rivisti ora, per la prima volta, dopo quarantacinque anni!”

“Allora ne avete ben donde!” mi dice sorridente la donna porgendomi i documenti vidimati.  

Ritorno ai miei amici in attesa di essere chiamato per il prelievo. Appena assolta l’analisi, mi caricano sulla loro automobile e andiamo a casa mia dove trascorriamo la parte rimanente delle mattinata. Quando, verso l’una se ne vanno mi promettono formalmente di tornare a trovarmi, questa volta magari anche con Piolo, il mio amico di più lunga data, compagno di sogni adolescenziali, oltre che di scuola; l’amico con cui feci la mia prima esperienza musicale: due chitarre e un fustino di detersivo vuoto. Lui era il vero artista. Diplomato all’Accademia di Belle Arti di Brera poi al Conservatorio Giuseppe Verdi di Milano. Ben presto è diventato professore di contrabbasso alla Scuola di Musica Civica di Milano e concertista di elevatissimo livello. Con il suo gruppo musicale, il “Giardino Armonico”,  ha fatto decennale carriera artistica con tournée in tutto il mondo. Per noi, però, Paolo Rizzi rimane solo “il Piolo”, l’affettuoso nomignolo che suo fratello minore gli aveva dato dal momento in cui era riuscito a pronunciare le sue prime parole.

I risultati delle analisi del sangue, per la prima volta, ahimè, presentano i valori delle piastrine - corpuscoli che permettono la coagulazione del sangue – bassi. Mi dicono che necessito di una trasfusione e pertanto che il quarto e ultimo ciclo sarà rimandato di una settimana. Una trasfusione per me vuol dire un altro ago da infilare nelle mie povere braccia. C…..!

Tralasciando i dettagli di questa operazione da considerarsi un aspetto marginale della storia (sebbene mi abbiano fatto un bel tre buchi prima di beccare la vena), l’unica cosa bella della settimana è la telefonata inaspettata di Piolo: “Dado? Ciao, sono Paolo…!”. Non so spiegare l’ondata di commozione che mi pervade! Non mi capacito proprio di questo nodo in gola e delle lacrime trattenute che, per uscire, spingono dalla radice del naso verso i canaletti lacrimali. Grande momento di gioia, che non libero come dovrei. Stupido! Come mi farebbe bene una bella caragnata[4] liberatoria!

La sera prima del ricovero per il quarto ciclo vengono a cena da noi Federico (mio figlio), Giulia (la mia attuale nuora) e una coppia di loro amici, Francesco e Ana. Lui grande amico di calcio e di birra di Federico. Lei, la dolce moglie spagnola, è infermiera al reparto solventi dell’Istituto. Inutile dirlo: io e lei parliamo moltissimo. Ana infatti sta seguendo dei corsi di specializzazione e sta preparando una tesi sulla figura dell’infermiere dedicato. In pratica un modello ideale che dovrebbe seguire il paziente come il personal trainer nel fitness. Un personaggio di grande supporto per una persona malata in quanto in grado di alleviare la sofferenza oltre che con il sostegno fisico, psicologico e morale anche con quello educativo/informativo. Sono affascinato dai suoi racconti, perché corrispondono a una necessità latente che cresce giorno dopo giorno dentro di me. Un’utopia, sotto il profilo economico, nell’attuale sistema ospedaliero italiano.

Quando finalmente entro per il quarto ciclo mi sento un habitué. In effetti sono diventato un po’ il vecio della situazione.  Ora sono io ad accogliere con calore e rassicurazioni i “primipari”. In questa occasione conosco Luigi. Un uomo, anzi direi un “ragazzone”, con una decina d’anni meno di me. Lavora come operaio specializzato in carpenteria pesante dalle parti di Castellanza, vicino a Legnano. È membro attivo del consiglio sindacale di fabbrica. Affetto della mia stessa malattia, è al primo ciclo. La società per cui lavora va male, come tante in questo interminabile periodo (chissà se mentre state leggendo sarà finito?). Luigi, quindi, oltre al problema di salute, è attanagliato dall’angoscia di sentirsi precario professionalmente. Come me, ha avuto il momento della Turv, con un paio di settimane di ricovero. Al ritorno in fabbrica, gli avevano fatto una proposta di prepensionamento e gli avevano offerto una modesta cifra per la buonuscita, che lui aveva rifiutato perché, essendo la sua famiglia monoreddito, con due figli in età ancora scolare non gli avrebbe permesso di tirare avanti per molto tempo. Lui aveva rilanciato e la Direzione dell’azienda stava valutando molto seriamente la sua proposta, ma poi aveva scoperto che il suo tumore era maligno e la conseguente necessità di assentarsi a lungo dal posto di lavoro. Ora ha iniziato la chemioterapia ma non l’ha comunicato in Azienda per timore che la cosa possa compromettere la sua possibilità di poter riprendere il lavoro nel caso di mancato accordo. Così è in mano ai sindacati e si sente molto precario. Malgrado ciò, Luigi è un’anima in pena… nel senso positivo! Super attivo e grande chiacchierone, non si limita a fare conversazione con i compagni di stanza. Anzi, sempre abbrancato al suo trespolo, si aggira in corridoio, fermandosi ai piedi del letto di qualche paziente delle camere attigue. È proprio Luigi a portami in camera Francesco, il veterano. 

In realtà Lucia mi aveva già parlato di questa persona, al mio primo ciclo di chemio. Francesco è stato operato della mia stessa malattia a fine novembre. Proprio in quell’occasione Lucia era stata riconosciuta, nel corridoio del reparto, dalla cognata di Francesco. Questa donna è da sempre la migliore amica della sorella di Daniela, sì, quella a cui era stato diagnosticato un tumore al seno alle origini della diagnosi del mio male. Lucia le aveva anche parlato, ma preferiva non mettermi in contatto con lui, perché Francesco aveva avuto un’importante complicazione post operatoria. In sala, durante l’operazione, aveva contratto un diabolico batterio che lo stava mandando al Creatore. Portato in sala di rianimazione, si era ripreso bene. Tuttavia il decorso operatorio era durato più del previsto e anziché transitare in istituto per i rituali quindici/venti giorni si era fermato per quasi due mesi.

Ora Francesco sta bene. È felicissimo di tornare a casa sebbene sia amareggiato per il futuro della sua vita sessuale. Solo il giorno prima dell’operazione il chirurgo che l’ha operato l’ha informato che, oltre alla vescica, gli avrebbero asportato la prostata, una serie di linfonodi e che gli avrebbero reciso i nervetti che permettono l’erezione. Sebbene avesse solo tre o quattro anni meno di me (in quel momento ne avevo sessantadue) doveva essere molto attivo sessualmente e la cosa l’aveva sconvolto. Il chirurgo l’aveva però parzialmente tranquillizzato dicendogli che, a regime, avrebbe potuto andare da un andrologo, un medico specializzato, per ottenere una cura capace di ridargli tutta la sua mascolinità. Francesco spiega a me e a Luigi che quella sera, il chirurgo, come premio di consolazione, gli aveva permesso di uscire per farsi una pizza… oppure l’ultima trombata (?!).

Anche Luigi accusa il colpo. Io sono oramai alla fine della chemioterapia ed è venuto il momento di cominciare a pensare alla fase due: l’operazione. Questa notizia rientra però nella fase tre (la convalescenza) e faccio finta di non averla sentita.

Francesco è di Treviso. Domani tornerà a casa. Ci scambiamo i numeri di telefono. Mi garantisce che mi assisterà a distanza e mi dà piena disponibilità per confrontarmi con lui nel caso di eventuali problemi di percorso. Ci stringiamo la mano calorosamente. Mi congeda dicendomi: “Io vengo dalla zona del Prosecco. Quando staremo tutti meglio verrò a Milano con una cassetta piena, di quello buono e ce la scoliamo tutti insieme!”

Di questa sessione ricordo con grande piacere la visita di Ana, l’amica di mio figlio Federico.

Non la riconosco subito nella sua divisa da infermiera. Vedo entrare nella stanza, in modo deciso, questa giovane seguita da un medico abbigliato con camice da chirurgo e cuffietta. Ana mi vuole presentare il primario del reparto a cui vuole raccomandare il mio caso. In quest’uomo colgo immediatamente la capacità di comunicare, la semplicità nel dire le cose e una grandissima carica di simpatia. Penso immediatamente che nell’eventuale momento del bisogno sarà molto semplice andare a bussare alla sua porta… Come scoprirete nel proseguo della lettura sarà una cosa che accadrà!

In tempi precedenti Ana era stata collega di Pina al reparto solventi. Ritrovandosi in reparto in quest’occasione parlano di me e questa particolare circostanza mi dà l’opportunità di avviare con Pina con un rapporto di maggiore confidenza. Da oggi anch’io ho il privilegio di darle del tu!

CAPITOLO IX

IN ATTESA DELL’OPERAZIONE

I documenti relativi alla dimissione e alle istruzioni per il mese di transizione, prima dell’intervento chirurgico, mi vengono trasmessi dal leader del team oncologico. Finora, per scelta precisa,  non ho per nulla considerato l'operazione. So però che ci sono due grandi alternative chirurgiche: il sacchetto esterno e le neo-vescica. A presentarmele è il giovane ricercatore, quasi coetaneo di mio figlio, con il piglio da grande studioso, che mi aveva spiegato come funzionava la chemioterapia sperimentale a cui avevo aderito. A differenza dei suoi collaboratori, tutti estremamente caldi ed umani, è un uomo dal carattere apparentemente molto chiuso. La sua aura da grande scienziato lo rende, ai miei occhi, quasi inavvicinabile. Quest’incontro imprevisto mi mette in agitazione e quasi senza volere mi sbilancio chiedendogli un suo parere su quello che dovrei fare nell’imminente “fase due” del mio percorso clinico: l’operazione.

In modo totalmente inatteso mi risponde, dandomi la sua opinione personale, che incasso quasi serenamente, in quanto giudico questa persona estremamente razionale: “Lei non è più un ragazzino. Non credo che abbia più l’esigenza di esibire il corpo sulle spiagge o la necessità di fare conquiste. Alla sua età penso che sia ragionevole parlare di Bricker-stoma (il sacchetto esterno) piuttosto che correre rischi con una neo-vescica, un intervento che andrebbe a toccare due diversi organi – la vescica e l’intestino – e che raddoppierebbe sicuramente la possibilità di complicazioni post operatorie. Tra l’altro potrebbero insorgere problemi di incontinenza irreversibile o addirittura, all’opposto, problemi di totale ritenzione urinaria. In questo caso potrebbe svuotarsi soltanto attraverso il frequente uso quotidiano del catetere. Questo è naturalmente il mio punto di vista personale. La scelta finale non può spettare che a lei!”

Così mi calo improvvisamente e inaspettatamente nel passaggio successivo del mio percorso. È  venuto il momento di saperne di più!

Torno a casa frastornato e debilitato. Dopo quattro cicli di chemioterapia, ho perso undici chili rispetto al mio peso forma e quindici chili rispetto a circa un anno fa, quando ero un po’ sovrappeso. Appetito quasi azzerato e un profondo stato di stanchezza fisica diventata oramai cronica. In aggiunta a ciò ho davanti a me la prospettiva di un’operazione che comunque mi lascerà delle menomazioni.

Per fortuna che ci sono gli amici! Non sto a menzionarli nemmeno tutti. Sono troppi, e per questo mi sento e mi sentirò sempre un uomo fortunato.

In questo periodo una delle mie occupazioni principali è cercare di focalizzarmi sul tipo d’intervento che per me dovrebbe essere più opportuno. Telefono principalmente a persone che sono state stomatizzate e che vivono con il sacchetto esterno. Uomini e donne. Tutti mi danno il conforto di vivere bene, non rinunciando a nulla: cibo, attività sportiva, vita normale. Dai miei amici Remo e Chiara ricevo anche il numero di telefono di una persona che ha subito l’intervento di cistectomia (asportazione della vescica) con la costruzione di una neo vescica. Mi dicono che è soddisfattissimo, che vive una vita normale e che ha appena iniziato una nuova relazione amorosa. Lo contatto telefonicamente pensando che sia stato preallertato… Macché! Pensate che figura di m…. quando, imbarazzato e dopo essermi rassicurato di parlare con la persona giusta, gli spiego il motivo della telefonata, mi sento quasi brillante nel districarmi dall’imbarazzo. Per fortuna dall’altro capo del filo trovo una persona soddisfatta della sua situazione: è stato operato in un importante ospedale situato nel circondario di Milano. L’intervento è andato bene ma oggi deve svuotarsi quattro o cinque volte al giorno con l’aiuto del catetere… si deve autocateterizzare! Sentendomi scosso, dall’altra parte del telefono, avverte il bisogno di rassicurami: “Guarda che non è un problema. In realtà è soprattutto un blocco psicologico. Dopo la prima volta, ti senti già più sicuro e poi diventa un gioco da ragazzi!”.

Quando riappendo penso che il team leader degli oncologi del INT tutto sommato ha ragione. Ora devo convincermi a fondo io! Devo essere certo che “il sacchetto” sia la scelta più giusta.

In prima battuta ne parlo a fondo con Lucia. Poi con mio figlio. Poi con gli amici più stretti. Poi con tutti quelli che mi vengono a trovare. Decido infine di cercare il sostegno dei miei primi amici, quelli di più vecchia data. Così viene il momento di fare la rimpatriata con Piolo e il terzetto che  era venuto a trovarmi nella sala prelievi dell’Istituto.

Averli tutti intorno è un grande momento. Racconto loro tutta la storia. Un breve resoconto delle due ipotesi, le raccomandazioni del team leader, le informazioni telefoniche provenienti dalle varie fonti e infine la richiesta del loro parere. Sicuramente l’enfasi che pongo sulla scelta del sacchetto o forse la naturale paura maschile di farsi penetrare il pene da una sonda… insomma tutti sono d’accordo e mi consigliano di farmi stomatizzare. Io naturalmente sono già convinto di questa scelta… al novantacinque per cento, però!

LUCIA

La decisione da prendere è molto delicata e difficile. Dado, come è nel suo carattere, quando ha un problema ne parla al mondo intero e come sempre ha fatto per qualsiasi cosa da fare pone le alternative in modo tale che tu non possa far altro che rispondere quello che lui vuol sentirsi dire. Quindi: la decisione è presa! Stomizzazione.

Per staccare un po’ la spina e cercare di allentare la tensione del prericovero, con Lucia, decidiamo di andare a trascorrere qualche giorno ad Abano. Oramai da anni le terme sono per noi un momento di estremo relax, dopo periodi carichi di tensione o di lavoro pesante. In queste situazioni il piacere di fare niente e di essere coccolati dalle cure di un massaggio rilassante o dal caldo abbraccio delle acque termali sono diventati una panacea insostituibile. Dal momento che sappiamo che l’unico rischio di questo tipo di soggiorno può essere rappresentato dalla noia, abbiamo adottato lo stratagemma di spezzare la giornata con escursioni in varie mete turistiche che da questa località sono a una distanza non superiore all’ora di viaggio. In questo soggiorno abbiamo deciso di tornare nella magica Venezia. Un itinerario che avevamo già fatto in una delle precedenti occasioni e che avevamo particolarmente goduto in quanto ci aveva permesso di apprezzare questa magica città sotto la neve, in un periodo scarsamente affollato dall’abituale marea di turisti.

Parcheggiamo l’automobile in piazzale Roma. Lucia mi chiede se preferisco prendere il vaporetto per arrivare fino a piazza San Marco. Io mi sento pieno di voglia di fare e le rispondo che sono intenzionato a camminare. Cosa che inizialmente facciamo di buon passo. Attraversiamo un paio di ponti e, dopo avere percorso non più di sette/ottocento metri, comincio a sentirmi sfinito. Sia il pensiero di andare avanti che quello di tornare indietro cominciano a pesarmi quanto i miei passi. Ci fermiamo a prendere un tè in un bar e poi, appena leggermente rinfrancato torniamo alla macchina. Lucia è in collera con me: “Te l’avevo detto che dovevamo prendere il vaporetto!”, ma chi ha la forza di replicare!

Questa è l’unica occasione in cui mettiamo la testa fuori dalle terme.

Tornati a Milano, fra le tante visite che ricevo, ce n’è una particolarmente gradita. Quella di Alma, la mia maestra di dialetto milanese, e ormai grande amica. Passiamo un paio di piacevoli ore insieme. Questa cara amica mi porta tra l’altro le missive degli amici del Circolo Filologico Milanese, del Coro di Milano per la Scala e del Circolo Marinai d’Italia di Milano. Alma ha raccolto tre bellissimi messaggi di solidarietà e conforto dalle tre organizzazioni che più di cento persone hanno firmato per farmi sentire veramente importante. Queste lettere mi infondono forza e serenità accresciute. Ma cosa ho fatto per meritarmi tutto questo?

I giorni corrono e la fatidica data dell’operazione si avvicina a grandi passi. Sono oramai convinto della mia scelta ma voglio saperne ancora di più. Così, il giorno in cui devo recarmi in Istituto per gli esami del sangue di controllo ne approfitto per bussare alla porta del Primario. Come avevo previsto mi accoglie senza problemi. Quando gli chiedo come e quale sarà il mio futuro mi dice che mi farà avere un manualetto dove sono scritti e descritti tutti i miei possibili percorsi chirurgici, anche con parole semplici… Peccato che il libricino sia in inglese! Il problema sorge per i termini scientifici o tecnici. Comunque leggo con attenzione ogni dettaglio del fascicolo. Lo ritengo sufficientemente esaustivo, forse troppo: le illustrazioni mi mettono addosso uno strano senso d’inquietudine e penso sinceramente che, oltre un determinato limite, è meglio non sapere e affidare ai chirurghi il proprio destino.

Quando rivedo il primario, lo ringrazio comunque sentitamente e gli propongo di fornirgli la mia traduzione in italiano, magari su un file di Word. Mi dice che ci stanno già lavorando all’interno del Reparto e che presto ce ne sarà una versione nella nostra lingua.

  

CAPITOLO X

RICOVERO PER L’OPERAZIONE

E arriva anche il 7 marzo, il giorno stabilito per il ricovero. È un giovedì. Due giorni dedicati a un lungo elenco di esami: sangue, PET, TAC, cardiogramma e visita cardiologica, visita del chirurgo e chiacchierata finale con l'anestesista. Domenica dedicata alla pulizia intestinale e lunedì, in conclusione, l'intervento.

Tutto risulta in buone condizioni a parte un innalzamento della pressione dovuto alla chemio extra, quella sperimentale. Avevo letto, nelle controindicazioni, che in futuro potrebbe darmi dei disturbi cardiaci. Tuttavia, al momento,  la visita dallo specialista scongiura questa ipotesi.

È il momento della resa dei conti e non so ancora di che morte devo morire... per modo di dire naturalmente! la mia intenzione è vivere e alla grande, per tutto il tempo che mi sarà consentito. Mi è stato detto che lunedì mattina sarò il primo a essere operato e che sarà proprio il primario a "farmi la festa"... così decido di andare a bussare ancora una volta al suo studio, anzi andiamo in due, c’è anche Lucia. Anche questa volta non mi delude. Mi accoglie con grande empatia e ascolta con attenzione tutto quello che voglio dirgli. Svuoto infatti il sacco con tanto di dettagli sulle informazioni e i consigli che mi hanno dato arrivando alla conclusione di desiderare di essere stomatizzato. Sul suo viso aleggia un sorriso che successivamente coglierò spesso, tra il divertimento e lo sfottò. Inizia a parlare e in un attimo sovverte tutti i ragionamenti e le congetture che ho fatto per un mese intero. Demolisce a una a una tutte le mie obiezioni. Improvvisamente mi sento nella condizione di affidargli con la massima fiducia la mia vita. In due parole scredita tutto quello che mi ha detto il team leader del reparto oncologia : "Lui è un oncologo, cosa vuole ne sappia di chirurgia! E poi lei è giovane!”

Quando poi gli parlo dell'amico con la neo vescica che deve cateterizzarsi quattro o cinque volte al giorno mi chiede: "Ma è stato operato qui da noi?"

Mi spiazza e quando in confusione farfuglio che non mi pare, mi risponde energicamente: "Allora senta i nostri! Noi abbiamo un'altissima percentuale di  interventi perfettamente riusciti!" 

Penso che più tardi telefonerò a Francesco, il "compagno di sventura" operato prima di me e oramai dimesso da oltre un mese. Sicuramente mi saprà dire come funzionano a regime lo cose. Prima di congedarmi, chiedo conferma al chirurgo della sua presenza all'operazione. La sua risposta mi sconcerta ancora una volta: "No, cambio di programma! Io ci sarò per la parte demolitiva ma poi la ricostruzione sarà affidata a un bravissimo chirurgo che è entrato a far parte del nostro organico proprio in questi giorni. Può darsi che l'abbia già visto in giro per le corsie."

“È quel medico coi capelli grigi che era nel suo studio prima che io entrassi?" chiedo io ingenuamente.

"Macché dottore coi capelli grigi! Se la sente la sbrana. Lui crede di essere Richard Gere! Non gli faccia questo affronto. Anzi, sa una cosa, adesso ve lo presento così potrà spiegarvi meglio tutti i dettagli dell'intervento".

Usciamo tutti e tre dallo studio e rintracciamo il medico “nuovo” in una piccola sala riunioni dove ha preso provvisoriamente posto la sua scrivania. Viso aperto, sguardo furbo e vivo. Si presenta con aria estremamente professionale. Si chiama Massimo. Il primario si congeda e ci lascia soli con lui, che inizia a catechizzarci dandoci lezioni di anatomia e di chirurgia. Sulla lavagna bianca, posta sulla parete, inizia a disegnare le diverse possibilità cui si troverà di fronte aprendomi la pancia. Per ognuna delinea un diverso percorso chirurgico. Naturalmente ha le idee molto chiare. Gli confido le mie paure per il catetere e mi rassicura garantendomi che questa sarà l'ultima delle strade che potrebbe percorrere. Naturalmente anche lui condivide al 100% il punto di vista del primario: il sacchetto esterno si conferma un'ipotesi molto remota, adottabile solo se assolutamente indispensabile.

Finita la chiacchierata, inaspettatamente mi chiede di visitarmi e, oramai tanto per cambiare, zum!... m'infila il suo dito indice nel fondo della schiena. Per fortuna, lo noto subito, ha mani sottili con lunghe dita da musicista!

LUCIA

Chissà? Forse  sperava che i due medici si convincessero che la sua scelta fosse la migliore!

Uscito dall'infermeria, telefono subito a Francesco, a Treviso. Lo trovo come sempre molto carino. Sta bene. Tutto ha ripreso a funzionare per il meglio. Quando gli dico che il lunedì successivo sarò operato mi dichiara tutta la sua solidarietà e dice che se non ci fossero problemi di lontananza verrebbe volentieri ad assistermi.

L'ultima attività della giornata è l'incontro con l'anestesista, anzi gli anestesisti. Una coppia di ragazzi veramente simpatici che mi raccontano, addirittura con eccesso di particolari, cosa mi capiterà lunedì mattina. La spiegazione parte dal momento della preanestesia in reparto, per passare all'iniezione epidurale per l’inserimento del catetere nella spina dorsale al fine di consentire il dosaggio della morfina nella fase successiva all'operazione. Infine ci sarà la fase di controllo, fuori sala operatoria, prima di essere riportato in reparto. Ora so veramente tutto!

Vengo ricoverato nella camera numero cinque, attigua a quella che mi ha ospitato ben quattro volte durante la chemioterapia. È una camera di confine. Entrando, i due letti sulla sinistra sono destinati a pazienti in chemio. I due letti sulla destra sono invece destinati agli operati. Il mio letto è il primo a destra, subito dopo l'ingresso. Il mio vicino si chiama Mario ed è abruzzese. È stato operato il giorno del mio ingresso, probabilmente dopo diversi cicli di chemio. La durata prevista per la sua degenza è di circa una settimana. È veramente una persona simpatica e vitale, sebbene carica di paure e apprensioni. Credo che abbia un anno o due più di me ma, a differenza mia, si vede benissimo che è uno che tiene in modo particolare al suo look e alla forma fisica, anche se in questo momento, come buona parte dei degenti, ha l'aspetto di uno dei reclusi di Auschwitz. Mario è assistito dalla moglie, di pochi anni più giovane di lui e veramente molto graziosa. Nella vita precedente (solo pochi mesi prima) erano stati ballerini professionisti. Mario mi mostra anche alcune foto di loro due in concorso. Abito da sera, collo eretto, postura perfetta. Sembra veramente un'altra persona con quei due baffetti da sparviero e la bella criniera bionda, tutta riccioli. Fraternizziamo subito e sono felice di potergli dare qualche piccolo aiuto durante la sua prima notte dopo l’operazione.

Ormai è venerdì sera. Il weekend sarà una piccola tregua. Qualcuno mi ventila la possibilità di avere un piccolo congedo per il fine settimana. Devo solo farmi firmare il permesso dal medico di turno che non oppone nessuna resistenza. Mi raccomanda però di assumere alcuni farmaci negli orari stabiliti e, la domenica, di assumere i due “bustoni” di purgante per la pulizia intestinale, a distanza di quattro ore uno dall'altro.

Andare a casa mi sembra una sorta di fuga. Uscito dall'ospedale provo un grande momento di felicità, sebbene sia consapevole che questa fuga sia effimera.

Il sabato, a casa, sbrigo diverse cose che ho lasciato in sospeso. La mattina, mentre  sto lavorando al computer squilla il telefono. Rimango sorpreso nel sentire la voce di Pina. Mi dice che domani mattina dovrei andare in Istituto per un prelievo del sangue, necessario per un'analisi sulla coagulazione e richiesto dall'anestesista. Poi potrò tornare a casa. Tuttavia, dato che il pomeriggio della domenica sarebbe comunque dedicato solo allo svuotamento dell'intestino, decido che rimarrò addirittura in ospedale evitando l'assurda levataccia del lunedì mattina.

Sabato pomeriggio mi vengono a trovare un sacco di amici. Un continuo andirivieni. Gli ultimi ospiti arrivano verso le ventuno, momento in cui chiedo a Lucia se sia possibile mangiare qualcosa. Il piacevole  tourbillon di amici ha cancellato il senso del tempo, sopendo anche gli stimoli della fame.

Per tutta la giornata non ho fatto altro che raccomandare ai miei amici di non venirmi a trovare prima che sia trascorsa almeno una settimana dall'intervento. Non voglio che mi vedano tutto intubato a trascinarmi  per i corridoi del reparto, come uno zombie, attaccato al trespolo della flebo e coi cateteri, uno spettacolo a cui sono oramai abituato da mesi e che mi tocca profondamente.

La domenica mattina mi impossesso nuovamente del mio letto. Mario sta recuperando a passi da gigante, così ci facciamo buona compagnia.

Stranamente il purgante che assumo per ben due volte, dal primo pomeriggio, non mi procura alcun problema di strizzoni o spasmi all'intestino e la sera, prima di coricarmi, le mie secrezioni sono limpide come l'acqua di sorgente... o quasi.

Quando mi sveglio, il lunedì mattina, mi assale una crescente sensazione di angoscia, mista forse a paura. Dovrebbero “farmi scendere” non prima delle undici di mattina. L'attesa è veramente logorante. Adotto allora quella tecnica che ho imparato una quarantina d'anni fa, una sorta di training autogeno fatto in casa. Quello che devo fare è staccare la spina del cervello dal mio corpo. In questo modo la mia essenza può gravitare libera e diventare l'osservatore preferenziale di quello che succederà alla mia parte mortale... con estremo distacco! La prima volta che impiegai questo stratagemma fu forse per una pena d'amore. In quel caso il processo era stato l'inverso: era stata la mia parte fisica a liberarsi dalla sofferenza del cuore. Aveva funzionato e, quando serve, adotto questa pratica attraverso un pesante impegno di concentrazione. Ho lasciato il cellulare acceso. So che nessuno mi chiamerà, ma forse...  Infatti verso le nove e trenta arriva inaspettata la chiamata di due cari amici, Claudio e Marina, che dalle lontane Maldive, hanno interrotto la spensieratezza della loro vacanza per dedicarmi un pensiero, prima della mia operazione. Questa cosa mi eccita e la trovo di buon auspicio. Circa un'ora dopo mi iniettano la preanestesia e così inizia il grande ballo.

LUCIA

L’attesa è snervante. Arrivo in ospedale dopo le due e un'amica mi viene a fare un po’ di compagnia. Il mio cellulare continua a squillare, ma non sapendo che cosa rispondere, lo spengo. Verso le sette di sera, arriva il chirurgo che mi dice che è andato tutto OK e che lo stanno svegliando.

“Dottore, solo una domanda, siete riusciti a fare l’intervento facendo la vescica artificiale con un pezzo di intestino?”

Il dottore con un sorriso soddisfatto mi risponde di sì.

CAPITOLO XI

IL RISVEGLIO

Mi risveglio confuso. Sicuramente sono posteggiato nella famosa area sotto il controllo degli anestesisti. Non sto male ma avverto un senso di freddo. Dopo un’attesa indefinibile mi mettono su un montacarichi e mi riportano in camera dove mi aspettano Lucia e Raffaella, mia sorella. Sento il fastidio del sondino gastrico che dal naso arriva allo stomaco impedendomi di deglutire normalmente. Oltre al catetere per la morfina impiantato nella spina dorsale ho un altro sondino che esce dalla gola per assumere del liquido proveniente da una flebo. Un altro bolo alimenta il mio organismo attraverso un ago infilato nel braccio. In aggiunta a ciò ho un catetere infilato nel pene che alimenta una sacca di plastica trasparente agganciata al letto. Altre due sacche dello stesso tipo sono collegate ai drenaggi dei reni.

Malgrado abbia subito un intervento molto lungo e sia pieno di aghi, cateteri e sondini infilati in diverse parti del corpo, non sento alcun dolore, a eccezione del il fastidio al naso e alla gola provocato dal sondino. Mi chiedono come sto ma, mentre mi sforzo di dare qualche vuota risposta, vengo avvolto da un piacevole senso di stanchezza e mi addormento.

Nella notte gli infermieri, come silenziosi angeli custodi, fanno capolino di tanto in tanto provvedendo a verificare la situazione delle sacche di urina e di drenaggio che pendono ai lati del mio letto.

I primi due giorni successivi all'operazione mi lasceranno un ricordo molto vago. Massimo sì, lo ricordo. Già la mattina seguente, appena iniziato il lavoro, viene a verificare il mio stato di salute; continuerà a venire tutti i giorni, per tutta la durata del ricovero.

La sera del primo giorno, naturalmente oltre a Lucia, Federico e Raffaella viene a trovarmi, in modo veramente molto discreto, il mio amico Donato. Sono le sette di sera e vedo il suo faccione fare capolino dalla porta d'ingresso: "Volevo solo dirti ciao e vedere come te la passi!" e sparisce, come una visione.

Il giorno dopo mi mettono in piedi. È dura! La testa gira e il corpo è totalmente senza tono: mi sento molle come un fico. Nelle prime ore del pomeriggio mi lasciano seduto, per qualche minuto, sulla sedia accostata al letto. Lucia non c’è! Sarà andata probabilmente a mangiare qualcosa. Indosso ancora il camice operatorio e, tutto intubato, con la barba oramai lunga di tre giorni, mi sento una sorta di larva umana. Alzo lo sguardo verso la porta e vedo comparire Raf, più che amico, quasi un fratello. Sento uno strano senso di pudore e di vergogna ma anche una profonda felicità per quella visita inaspettata. Mi rivolgo a lui con tono falsamente seccato: "Ma vi avevo detto di non venire! Però grazie per essere qui!".

Per vedermi ha sfruttato la sua pausa del mezzogiorno, probabilmente saltando il pasto. Come posso non essergli grato?

La sera al telegiornale arriva la notizia che abbiamo un nuovo Papa: Francesco. Dal mio letto, senza occhiali, non riesco a vedere il viso di questo Papa dalla voce buona e con uno strano accento. Rimando così l’appagamento di questa curiosità a giorni migliori.

È il terzo giorno e mi tolgono il sondino gastrico. Una vera e propria liberazione che però, durante la notte pago duramente.

Mi addormento molto presto e altrettanto presto mi sveglio sconvolto da una crisi di singhiozzo. Chiamo l'infermiera di turno. Anna arriva quasi immediatamente. Le spiego il mio problema, apparentemente non ci sono rimedi efficaci e immediati per questo disturbo. La complicazione è legata proprio allo sfilamento precoce di quel maledetto sondino! Credo che questa notte rimarrà memorabile per tutta la mia vita. Non chiudo occhio un istante in preda alle continue convulsioni della gola. Ogni tanto, esaurita una crisi pesante, in un’apparente momento di tregua, sento le palpebre farsi pesanti e cerco di abbandonarmi nel sonno ristoratore… Macché, non faccio tempo ad arrivare alle braccia di Morfeo che il singhiozzo riparte alla grande! Sono disperato e anche un po’ adirato! 

La mattina presto sono felice di vedere Massimo e di esporgli il mio problema. Prontamente mi viene installato un nuovo sondino, che appena giunto nello stomaco comincia a prelevare e scaricare un enorme quantitativo di liquido verde scuro. Finalmente il singhiozzo si placa.

Intanto, già da un paio di giorni Massimo si preoccupa perché è venuto il momento di riprendere le mie funzioni intestinali: "Allora questo vento arriva? Intendo lo Scirocco, il vento del Sud…"

Nessuno Scirocco e nessuna Tramontana invece. Il mio intestino non ne vuole sapere. Anche Lucia è preoccupata e la sera va via quasi angosciata anche perché ha parlato con un medico, intercettato nel corridoio, che le ha spiegato che il fatto che io “canalizzi” è della massima importanza. Verso le nove qualcosa si muove nel mio intestino… verso sud. Prontamente prendo il cellulare ed invio un rapidissimo sms a Lucia: "Scoreggina!!!!".

LUCIA

Esco dall’istituto che è molto tardi. Sono a cena da amici che abitano a cinque minuti da qui. Sarà la stanchezza, sarà lo stress, ma sono tirata come una corda di violino. Appena entro in casa di Marco e Isabella mi chiedono “Edoardo come sta?”, scoppio a piangere come una fontana spiegando anche l’ultimo motivo di preoccupazione. Mangio e piango, poi arriva un sms: finalmente si è mosso qualcosa: Dado ha canalizzato!

La serata prende una piega diversa, ridiamo, brindiamo e scherziamo a lungo. In certe situazione anche una "scoreggina” può regalare un attimo di felicità!

I giorni passano in modo monotono e ripetitivo. Il recupero mi sembra lentissimo e, come ho visto fare da tanti prima di me devo sforzarmi continuamente di rimanere in piedi e passeggiare avanti e indietro, per il corridoio. Questo è il modo giusto di attendere ansiosamente il ritorno delle forze. Per alzarmi dal letto devo mettere una stretta pancera in vita. Gli infermieri mi hanno poi insegnato una complessa manovra in più passaggi che prevede come prima fase che io faccia sporgere i piedi dal letto, poi una  rotazione delle natiche e per concludere, facendo leva sulle mani, saldamente impiantate nel letto, la levata in piedi. A questo punto, dopo avere inserito le sacche dell'urina negli appositi sacchetti di plastica bianca, con lunghissimi manici, m'infilo la mia vestaglia blu. La preparazione si conclude con  l’incrocio dei lunghi manici dei sacchetti sul petto. Così bardato posso iniziare la marcia. M'illudo di sembrare un carabiniere ma il mio aspetto si avvicina invece molto a quello di un povero derelitto. Questo stato mentale, decisamente di autocommiserazione, mi devasta, soprattutto durante i primi tentativi di deambulazione. In una di queste occasioni, barba lunga oramai di una settimana, passo stentato e trascinato, con il sostegno del trespolo della flebo, passo davanti alla stanza dirimpetto. All'esterno c'è uno sciame di persone, evidentemente meridionali. Al mio passaggio vedo che mi squadrano con curiosità. La mia reazione è immediata: "Cosa avete da guardare? Vi faccio pena?"

Una delle persone si stacca dal gruppo e mi insegue. Inizia a parlarmi convulsamente in una lingua per me incomprensibile. Solo dopo essersi assicurato che io abbia capito quello che mi ha detto, mi lascia andare con una vigorosa stretta di mano. È un camionista siciliano che si ammazza di lavoro per mantenere la famiglia. Tutta qui, in questo momento, per assistere il figlio sedicenne condividendone il dramma. È qui per curare un brutto tumore ai testicoli. Mi sento un vero stronzo... e la smetto di autocommiserarmi.

Il funzionamento del mio intestino, ora che ha ripreso a lavorare, lascia molto a desiderare. La diarrea è all'ordine del giorno e più che di cibo mi nutro di fermenti lattici e Dissenten. Di notte chiedo agli infermieri che mi lascino la padella accanto al letto e, devo essere sincero, ne approfitto più volte. In una vita normale avrei un profondo senso di vergogna nel dovermi fare pulire da giovani donne. Ma in questi giorni ho mandato l'orgoglio a farsi benedire.

Lucia mi assiste con una presenza costante. Dal momento che ho capito che si annoia le ho affidato il mio Ipad insegnandole qualche giochino di solitari. Qualche giorno prima del ricovero inoltre Raf ha scaricato un'applicazione che sembra intrigarla particolarmente, Ruzzle: una sorta di Scarabeo, uno schema da cui bisogna combinare delle parole di senso compiuto. È un gioco a tempo con cui, tra l'altro, è possibile trastullarsi confrontandosi con un’altra persona, a distanza (le magie di Internet!). Vince chi, sullo stesso schema, riesce a combinare il maggior numero di parole nel tempo previsto. Mia moglie passa delle ore assorta in questa attività e quando gioca sembra estraniarsi completamente.

Questo pomeriggio, mentre è intenta nel suo gioco, ho il presentimento di dovere andare urgentemente in bagno. Mi allaccio frettolosamente la pancera supplicandola, con estrema urgenza, di darmi una mano ad infilare le borse delle urine dei sacchetti. Per tutta risposta, senza scomporsi minimamente mi risponde: "Aspetta un attimo, sto vincendo e sta finendo il tempo!". Solo il Signore mi evita la figuraccia di farmela addosso!

LUCIA

Le giornate sono sempre uguali, caratterizzate dal susseguirsi delle solite scadenze: mi alzo, faccio un salto in ufficio, verso mezzogiorno passo in ospedale a vedere come va. Mi sembra che “il ragazzo” reagisca poco agli stimoli di riprendersi, e, sicuramente è un po’ viziatello: “Mangerei volentieri un filettino!” e portagli il filetto. “Se puoi, mi porti un po’ di parmigiano?” e arrivo con il parmigiano. Vado sempre a pranzo da Fede che mi accoglie silenzioso ascoltando le novità del giorno, ma che mi dà quel senso di tranquillità di cui ho proprio bisogno. È il momento più bello della giornata! Libero la testa da tutti i pensieri e, finito di mangiare, mi stendo sul divano. La telefonata arriva poco dopo: “Cosa fai?... Fra quanto arrivi?...”.  Così poco dopo mi ripresento in istituto. Spesso verso sera mi raggiunge Fede e quando usciamo andiamo a mangiare fuori. Prima di uscire c’è sempre lo stesso rito: “Mi metti la padella sulla sedia?... No, girala di più, così la prendo meglio. Mi avvicini il comodino? Riempi per piacere il bicchiere con dell’acqua? No, un po’ di più! Il telefonino me lo metti nel cassetto? Lascialo aperto! Puoi mettere un po’ di traverse sul tavolo, così gli infermieri le trovano subito?” Un disco, sempre uguale! Che palle!

Per il resto è routine, gli unici che cambiano sono i compagni di camera, quasi tutti sottoposti alla chemio e pertanto con ricoveri molto veloci (da una a tre notti) e i turni degli infermieri. Oramai li conosco tutti e di ognuno ho colto le caratteristiche peculiari, sia personali che professionali.

L'avvicendamento dei compagni di camera rappresenta invece un momento più complesso in termini di adattamento alla convivenza. In pochi giorni, dopo la dimissione di Mario, divento il "vecchio" della camera e quindi ogni nuovo arrivo o partenza va a modificare il mio equilibrio psicologico. Tra i diversi compagni con cui condivido la stanza ce n’è uno con cui la convivenza è particolarmente fastidiosa.

Milanese come me, uno dei pochi incontrati durante tutto il mio periodo di degenza. Non appena messo piede nella stanza si impossessa del telecomando della televisione e da mattina a sera si trastulla facendo zapping tra le più laide trasmissioni della "tivù spazzatura", tra l'altro a volume pazzesco. Mi tocca così sorbirmi dalle trasmissioni della De Filippi a quelle della Dalla Chiesa, dove tutto si riconduce a un continuo litigio e starnazzare di personaggi molto improbabili. È sicuramente una gran brava persona e ha una bella famiglia, ma questa cosa della televisione è veramente insopportabile.

Un altro compagno di stanza mi ha fatto molta tenerezza. È di un paesino del veneto, in provincia di Padova. Fa l'allevatore di conigli, coadiuvato dalla moglie. Come il mio amico Franco, viene a Milano per la terapia, da solo… “Altrimenti chi si occupa dei conigli?”. Invece Lucia viene a trovarmi due volte al giorno e questa cosa mi fa sentire un po' in colpa verso di lui, sempre così solo. Una volta, vedendolo molto nervoso, gli chiedo se ha bisogno di qualcosa, contando su Lucia per soddisfare i suoi eventuali bisogni. Scopro così che è uno dei tanti fumatori accaniti che impestano il bagno e che, anche in inverno, escono sul terrazzino per “spippottarsi” un po' di veleno: "Mi potresti fare acquistare un accendino che il mio si è scaricato?"

Non sono mai stato un bacchettone e non mi è mai piaciuto fare la morale a nessuno, però in questo caso non me la sento di tacere e gli dico: "Io l'accendino te lo faccio prendere però tu non dovresti fumare. Sai meglio di me perché siamo qui e il fumo non è certamente qualcosa che aiuta. Comunque sei libero di fare quello che vuoi, la vita è tua! Mi sembra assurdo che tu venga qui a farti curare mentre continui ad ucciderti con queste schifezze"

Al momento abbozza, ma poi chiede comunque di farsi comperare l’accendino.

Nel viavai dei coinquilini c’è anche il momento della "camerata simpatia".

Gli altri tre sono Gianni,  Antonio e Sergio. Il primo e il terzo con la mia stessa patologia ma nella fase della chemio. Il secondo è stato già operato di un tumore al testicolo e ha iniziato la stessa terapia. Gianni è di Salerno ed è molto giovane per questo tipo di malattia: solo quarantasei anni. Antonio invece, pur avendo circa cinquantacinque anni, ha un tumore che, in prevalenza, aggredisce persone molto giovani. Tra loro si scherniscono per quanto il destino sia stato inversamente loro sfavorevole. Antonio fa il camionista. Abita nella bergamasca ed è vice sindaco del suo paese. Nel tempo libero coltiva dei campi di proprietà in cui cresce il frumento che utilizza per nutrire il suo piccolo allevamento di maiali da cui poi trae un'esigua produzione di salumi e prosciutti. Una sera chiede alla moglie di portare del salame e del lardo da assaggiare. Lucia coglie l'occasione per darci un momento di svago e porta una bottiglia di vino rosso per condividere con un pizzico d'allegria questo momento di piacere collettivo. Io naturalmente, appena operato, non tocco né cibo né vino. Gli altri, pur essendo sotto chemio, mangiano e bevono alla grande.

Gianni, grande simpatia, a Salerno fa i "pastori". Proviene da una scuola d'arte ma poi ha deciso di dedicarsi alla produzione artigianale delle statuine per il presepe natalizio. La sua attività è ben avviata e nel suo negozio-laboratorio dà lavoro e sostentamento a diversi dei suoi parenti. Un piccolo grande imprenditore del Sud che gemella virtualmente la sua città a Milano in quanto ad efficienza, ordine e pulizia. È buffo sentire quanto prenda le distanze da Napoli, capoluogo della sua stessa regione. Contro questa città nutre una profonda e, dal canto mio divertente, forma di campanilismo. Gianni dovrà subire il mio stesso intervento e mi riempie di domande e s'interessa con preoccupazione del mio stato di salute. Un comportamento totalmente diverso da quello di Sergio, di Busto Arsizio. Di un paio d'anni più giovane di me, rifiuta la sua malattia. È uno dei pochi incazzati per quello che gli è successo e giura che non si farà mai operare... “piuttosto la morte!”. Intanto però fa la chemioterapia.

Con Sergio cerco di essere solidale, in più occasioni, controbattendo alle sue affermazioni con gli argomenti che mi hanno portato a questo punto e che giorno dopo giorno sono diventati per me delle convinzioni. Lui però fa il bastian contrario e alla fine mi stufo e non gli do più corda. Che faccia quello che più gli aggrada!

Intanto, giorno dopo giorno, i medici iniziano a togliermi un po' di tubi e tubetti. Il primo, due giorni dopo il precedente esperimento, è il sondino gastrico. Poi quello dell'innesto della macchinetta della morfina, seguito dal cateterino che ho nel collo.

Oggi c’è qualcosa che mi dà fastidio sul prepuzio del mio pene. È un punto metallico con cui hanno fissato il catetere. Chiedo e mi confermano che a questo punto non è più di nessuna utilità e che può essere tolto. Lo fa con magistrale delicatezza il chirurgo che avevo conosciuto alla mia prima visita all’Istituto.

Intanto, con Massimo, siamo entrati in una sorta di confidenza. Abbiamo scoperto di avere entrambi la passione della musica e di suonare entrambi la chitarra. Per darmi un po' di distrazione mi porta addirittura da leggere un libro che ha appena acquistato e che parla delle tecniche di costruzione e della storia di questo meraviglioso strumento. È un libro nuovo e io ho il terrore di sporcarlo, essendo appoggiato al tavolino dove normalmente mangio.

In realtà non mangio molto e questo inizia a preoccupare Massimo. Questa mattina lo vedo arrivare trionfante in camera insieme a Grazia, la caposala, tenendo tra le mani due flaconi di preziosi integratori alimentari. Uno è alla banana, l'altro al cioccolato. Grazia mi dice: "Finora non ne abbiamo mai fatto uso qui, ma questo dottore ci sta portando delle novità che riteniamo opportuno provare!".

Senza leggere le istruzioni trangugio la bottiglietta del preparato alla banana. Un'esperienza terribile! Dopo poco più di mezz'ora inizio ad avere delle fortissime contrazioni all'intestino. Mi stringo la pancera intorno alla vita e dopo avere infilato le sacche di urina nei due sacchettoni bianchi mi affretto verso il bagno. Faccio appena a tempo ad arrivare, per fortuna non chiudo a chiave la porta. Inizio a svuotarmi con la potenza di un rubinetto aperto alla massima pressione e continuo per un bel po'. Quindi sono colto da un collasso. Lucia non vedendomi tornare viene in bagno a cercarmi e mi trova semi svenuto, sul water in un effluivo che non odora certo di banana. Corre a chiamare qualcuno e qualche istante dopo Grazia, Veronica, e il primo dottore che ho conosciuto in Istituto fanno irruzione nel bagno, attrezzati con una comoda sedia a rotelle. Quando riescono a rianimarmi comprendono che quanto mi è successo è stato causato dall'integratore alimentare. Ne leggono le istruzioni e mi sgridano perché avrei dovuto assumerlo in piccole quantità, consumandolo nello spazio di quattro ore, non tutto in una volta come invece ho fatto. Il secondo flacone al cioccolato rimane sul comodino inutilizzato per tutta la durata del mio ricovero.   

CAPITOLO XII

SECONDA OPERAZIONE

Le cose stanno gradualmente migliorando. Dopo i primi giorni in cui sono stato lavato amorevolmente dagli infermieri ho ripreso a farmi la toletta da solo e ho anche ripreso a radermi.

Sono passati poco più di dieci giorni dall’intervento. Massimo viene a trovarmi euforico dicendomi in anteprima che l’esame istologico dei linfonodi tolti durante l’intervento (vescica, prostata e ventisei linfonodi) è negativo. Sono pulito!

Nella stessa mattina durante il consueto “giro dei medici” incontro lo sguardo radioso del giovane team leader degli oncologi. Mi sorride sollevando il pollice nel senso di “Tutto OK!”. Per la prima volta vedo in quegli occhi la gioia di un bimbo che ha vinto la sua partita a pallone. Sul suo viso c’è l’orgoglio del successo. Più tardi, quando finalmente imparerò a conoscerlo meglio, scorgerò anche la disperazione della sconfitta… quando le cose non evolvono seguendo il suo progetto terapeutico. 

Massimo viene a trovarmi tutte le mattine cercando di vedere in me grandi progressi e recuperi. Forse per i suoi gusti sono un po' lento, anche se non me lo fa mai capire chiaramente.  Al contrario, ha sempre una parola gentile. Spesso, prima d'andarsene, mi pizzicotta la gota facendomi sentire un bimbetto che riceve l'incoraggiamento paterno. Di tanto in tanto mi lancia un messaggio di speranza dicendomi: "Tra qualche giorno togliamo tutto e la mandiamo a casa!".

Le ultime cose che devo togliere sono i due drenaggi e il catetere. Quando arriva il fatidico momento di levare il primo drenaggio succede il patatrac. Vado in infermeria e Massimo con calma e mestiere mi sfila con un colpo secco e leggero il primo catetere inserito direttamente in uno dei due reni. Tutto funziona alla perfezione e il drenaggio esce in modo totalmente indolore. Purtroppo, dalla parte opposta, l’operazione non dà lo stesso esito. Massimo avverte una resistenza e preferisce soprassedere: "Il secondo lo toglieremo domani o dopo, quando il punto si sarà ammorbidito in modo naturale!". Quando torno in camera Zino, un abilissimo infermiere, mi raggiunge per medicarmi. Una volta scoperta la parte, rimane estremamente stupito rendendosi conto che non c’è più traccia della parte che blocca all’esterno il catetere che non si era sfilato.

Zino corre a chiamare Massimo che, inizialmente non riesce a capacitarsi della cosa, ma che poi deve ammettere che qualcosa non ha funzionato: uno dei due tubi è stato inghiottito dalle mie viscere e probabilmente in questo momento sta navigando all'interno della mia neo-vescica.

Mi mandano immediatamente a fare un'ecografia e poi un’altra con dei macchinari più sofisticati. Hanno finalmente individuato il corpo estraneo. È in una posizione ancora molto esterna. Sulla base delle prime indicazioni è possibile che il cilindretto possa incanalarsi verso l'uretra. A questo punto potrebbe essere estratto con un semplice intervento in endoscopia.

Purtroppo, dalla notte stessa, la mia temperatura corporea comincia a crescere rapidamente. I medici temono un'infezione. Mi portano così, in gruppo, in infermeria cercando di recuperare l'oggetto del disastro attraverso delle piccole operazioni di chirurgia ambulatoriale. I dottori, a turno, mi palpano la pancia. Alcuni sentono la consistenza del corpo estraneo e fanno forti pressioni con le mani per veicolarlo verso zone più facilmente accessibili al bisturi. Io sono a “spina staccata”. Non so quando durano questi tentativi, ma mi ricollego improvvisamente quando interviene il primario che categoricamente dichiara: "Ora basta! Lasciamolo in pace. Domani lo operiamo."

E così sarà!

Venerdì 29 di marzo. Quando riapro faticosamente gli occhi intravedo soltanto la figura del primario, accanto al mio letto. Mi  osserva a lungo poi estrae dalla tasca il suo smartphone.  Armeggia per qualche secondo poi inizio a sentire lo sfarfallio di una chitarra elettrica… inconfondibile! Quando mi chiede: "Fiorini, che canzone è questa?" rispondo immediatamente: "Foxy Lady, Jimi Hendrix!". Vedo nello sguardo di questo meraviglioso essere umano una nota di compiacimento. Rimette il cellulare in tasca e dice: "Bravo! Ben tornato nel mondo dei vivi!".

Sono trascorsi due giorni ed è Pasqua. In camera sono solo. Gli altri tre letti sono vuoti e anche il ritmo del lavoro nelle camere e nelle corsie è attenuato dalle brevi vacanze pasquali. Oggi è domenica ed è l'apoteosi delle visite. Vengono a trovarmi probabilmente tutti gli amici che sono rimasti a Milano, compresi Ubi e la moglie, Angela.

Per essere dimesso dovrò attendere ancora 12 giorni.

Non sono giorni leggeri, probabilmente a causa della seconda anestesia. Un senso di profonda stanchezza mi pervade il corpo e il recupero delle forze sembra veramente difficile e lontano. Massimo convoca addirittura una dietologa affinché metta a punto un regime alimentare che possa aiutare la mia ripresa. Oramai è impensabile riprendere l’alimentazione via flebo e, valutata la debolezza del mio intestino, la dottoressa mi  prescrive una serie di alimenti compatibili: carne bianca, bresaola, patate e carote, mele e banane.  

L'umore non è tuttavia perfido. Ormai sono amico di tutti gli infermieri e gli inservienti. Quando la mattina arrivano in camera Olimpia e Isa, per rifare i letti, abbiamo preso addirittura la consuetudine di farci una bella cantata insieme... bella musica italiana degli anni sessanta! Siamo veramente in una bella compagnia!

In una delle nostre chiacchierate Massimo mi dice che presto mi dovrà parlare della fisioterapia, ma poi non tocca più l’argomento. 

A me però questo tarlo ha iniziato a rodere nella testa.

Finalmente viene il momento di togliere gli ultimi orpelli. Tolto il catetere Massimo mi dice di attendere una mezzoretta; poi faremo la prova minzione. Così andiamo insieme in bagno dove mi siedo sul water mentre lui osserva con attenzione il mio prepuzio. Quando finalmente vede sgorgare qualche goccia d'urina nei suoi occhi brilla una nota di trionfo. Chirurgicamente ha funzionato tutto!

Anche se togliere il catetere vuol dire che sono a un passo dal ritorno a casa, temo molto questo momento. Infatti da oggi, purtroppo, conosco l'incontinenza notturna. Di giorno va tutto bene. Ogni due ore sento uno strano peso al basso ventre che mi segnala il momento di svuotarmi. Purtroppo, il mio cervello è staccato dalla nuova sacca sostitutiva che Massimo ha abilmente confezionato con un pezzo del mio intestino. Il risultato è che non ho più lo stimolo, né la possibilità di inibire la fuoruscita di urina. Di notte così è un dramma. Anche lo sfintere che dovrebbe funzionare quando dormo non c’è più, e così puntualmente ad ogni ora devo alzarmi per cambiare il pannolone, completamente zuppo.

Tra un paio di giorni dovrei essere dimesso. È pomeriggio, Massimo viene a trovarmi. C'è anche Lucia. Mi pare un po' rammaricato e indagando scopro che c'è una nuova complicazione. Tra i vari discorsi che facciamo infatti dice: "Ci mancava anche il problema della....!"

Io e Lucia lo guardiamo interrogativi.

Massimo, accorgendosi di avere fatto una gaffe, ci dice: "Dimenticatevi questa parola!" Lo facciamo prontamente, però cominciamo a tartassarlo di domande fino a quando non ci spiega che nella mia pancia si è formata una sacca di urina e  che, se non si riassorbirà autonomamente nel giro di quindici giorni, mi dovranno “ripunzonare”, per svuotarmi: "Io però, non le metto più i ferri addosso!" mi dice con decisione.

Il giorno delle dimissioni Massimo non è in Istituto. Al medico che prepara le carte chiedo di prescrivermi anche una visita dalla terapista dell'Istituto. È il primo medico che ho conosciuto all'inizio di questa esperienza e mi accontenta preparandomi l'impegnativa. Quando gli chiedo la sua opinione sulla mia sacca è molto rassicurante: "Stia tranquillo, vedrà, il peritoneo in pochi giorni riassorbe tutto!"

Per fortuna, ha avuto ragione.

CAPITOLO XIII

IL RITORNO A CASA

Venerdì 12 aprile. La prima cosa che faccio al mio ritorno a casa è riattaccare in modo definitivo la spina del cervello al corpo. Desidero tornare a sentirmi vivo e capace di ragionare. Decido così, prima di tutto come esercizio intellettuale ma anche come debito di riconoscenza di scrivere una poesia, tutta dedicata ai miei amici infermieri che con tanta cura mi hanno assistito. All'inizio è uno sforzo inumano ma poi, concentrandomi, le parole cominciano a fluire e la stesura di queste dodici quartine diventa un gioco da ragazzi:

QUI SEI IN BUONE MANI!


Non temete voi che entrate!

Qui c'è il caldo dell'estate

gente che all'occorrenza

vi dà il cuore e l'esperienza.

Io non citerò gli "attori"

per rispetto: il team "dottori".

Parlerò di un altro ambiente:

l'infermiere e l'inserviente.

Chi dirige il grande "coro"?...

Donna Grazia, è il suo lavoro!

Lei ti drizza gli eversori

quando fa: "Parenti fuori!".

Della "chemio" è la regina,

vuoi il suo nome?... ecco: la Pina!

Ti fa il mix tra bolo e ampolla,

sembra caricata a molla.

È un professionista duro

ma per tutti è solo Arturo.

Sempre serio e assai pacato

fa, ti spiega e sei informato.

“Il mio verbo è pronto e fino,

mi presento, sono Zino!

Sono qui con Valentina

sveglia, furba, una fatina”.

L'efficienza è il loro motto

la dolcezza di un biscotto

da tenere a mano stretta,

son Veronica e Lucietta.

Un sorriso può bastare?...

Annalisa lo sa fare!

Caricata a buonumore

Ti "strapazza" con ardore.

Certi giorni non è in sella,

ma è pur sempre Raffaella!

C'è chi è asciutta e tanto fresca

sto parlando dl Francesca.

Per finire la corsia,

ecco Anna, Rita e Cia,

son diverse, ma nel cuore

hanno scritto tutte "amore".

Sono cinque e non minori

e per me i ristoratori:

Rocio, Tony, Elena e Isa

più un'Olimpia condivisa.

Già da oggi e per domani

sappi che sei in buone mani,

con rispetto e confidenza

sei seguito con pazienza!

Bene! Sono soddisfatto. Tutto può riprendere dal punto dove l'avevo lasciato.

Fissiamo subito l'appuntamento con la fisioterapista dell'Istituto. Sento il bisogno di controllare l'incontinenza notturna ma voglio anche capire perché sia tanto faticoso urinare. La donna prende un foglio da un raccoglitore e mi legge quanto c'è scritto spiegandomene ogni passo. Inoltre mi mostra una manovra per facilitare lo svuotamento della vescica. In pratica devo posizionare una mano sul basso ventre, sotto l’ombelico, sovrapponendovi l'altra che, con movimento a discesa, deve esercitare una pressione. La donna mi fornisce infine un modulo da fotocopiare dove devo registrare la quantità di liquidi ingeriti e le quantità e gli orari delle minzioni, comprese quelle raccolte dai pannoloni. Il rapporto deve poi essere inviato settimanalmente via e-mail alla fisioterapista per le dovute valutazioni. A tale scopo mi attrezzo subito di vaso da notte per la raccolta delle urine e di bicchierone graduato per la misurazione.

Ogni volta che faccio pipì è un rito. Seduto sul bidè, dove posiziono il vasino, mi strizzo il basso ventre per un quarto d'ora/venti minuti per raccogliere da 100 a 400 ml. Spesso, quando l'operazione si protrae più del dovuto e senza grandi risultati, ricorro a una sorta di mantra per aumentare la produzione: "Massimo, Massimo, Massimo...". A volte va anche bene.

Nelle prime tre settimane la prova produce risultati soddisfacenti, al punto che la dottoressa mi chiede di ridurre il numero d'invii passando a un rapporto quindicinale. Tuttavia, a me i tempi di svuotamento e, soprattutto, il modo, così a sgocciolamento e schizzetti, sembrano eccessivamente lunghi.

Decido così di fare una telefonata di verifica al mio amico Francesco, quello di Treviso che è stato operato prima di me: "Io faccio un bel getto! Non ho mai avuto il tuo problema, mi sembra strano!"

Quando lo faccio presente alla fisioterapista mi dice che il mio amico fa probabilmente "il di più" per darsi un vanto e sembrare migliore. “Migliore di cosa?” penso tra me. La donna mi dice poi che la mia è una situazione che rientra perfettamente nella normalità. Così verso la metà del mese di maggio decidiamo con Lucia di andare a trascorrere un breve periodo di convalescenza all'isola d'Elba.

Il viaggio è allucinante. Mi fermo in un paio di autogrill per fare pipì, attrezzato di zaino contenente vasino, bicchiere graduato, salviettine umidificate e copri water in carta. In entrambi i casi la produzione è molto scarsa. Finalmente quando ripeto l'operazione sulla nave ottengo risultati migliori.

LUCIA

Sinceramente non so che cosa pensare di questa nuova vescica. Dado passa più tempo a prepararsi e fare uno sgocciolio di pipì in tempi interminabili strizzandosi quella povera pancia. Forse aveva ragione lui quando diceva che avrebbe preferito l’altro intervento. Ma per ora mi tengo per me questi pensieri.

All'Elba il clima è estremamente piacevole e siamo molto felici di potere finalmente rilassarci in questa località a noi così cara. Lucia ha già organizzato un paio di cene con amici ma, purtroppo, al secondo giorno di permanenza accade l'imprevisto.

Nella mattinata faccio faticosamente un paio di volte la pipì ma quando, a mezzogiorno, sento di nuovo il bisogno di svuotarmi faccio completamente cilecca. Dal mio pene non esce una goccia a pagarla peso d'oro. Provo anche con il solito mantra: "Massimo!...Massimo!...Massimo!..." Macché!

Mando un'e-mail alla fisioterapista spiegandole il problema. Mi risponde che le sembro troppo apprensivo. Di stare calmo. Se per le quindici la situazione rimane invariata mi chiede di telefonarle. Cosa che puntualmente faccio. Intanto ho iniziato a sentire una forte tensione alla pancia. A questo punto la terapista mi dice di aspettare ancora un paio d'orette. Se per le diciassette non ci saranno risultati, allora dovrò presentarmi al pronto soccorso dell'ospedale di Portoferraio.

A Portoferraio, trovo un team di persone molto gentili. Una dolcissima infermiera, il primario del reparto chirurgia e una dottoressa al suo primo giorno di lavoro sull'isola. Cercano di liberarmi con l’uso di cateteri di diversi diametri ma il canaletto si è talmente ristretto che sono costretti ad usare un micro catetere chirurgico. Con quello mi svuotano e sto subito meglio. Torniamo casa, a Marina di Campo (a venti minuti da Portoferraio) nella speranza che quello che si è appena verificato sia un episodio e di poter riprendere serenamente le nostre vacanze.

Non va così. Ancora una volta di svuotarmi non se ne parla nemmeno. Siamo ormai a letto.  A questo punto conto sulla peristalsi notturna della mia neo-vescica. Niente da fare! A mezzanotte con Lucia decidiamo di prendere armi e bagagli e tornare a Milano, naturalmente dopo esserci fermati nuovamente all'ospedale per un nuovo svuotamento e con la speranza che mi diano dei supporti che mi permettano di affrontare il viaggio.

Anche il team notturno dell'ospedale isolano è eccezionale. Mi svuotano con lo stesso rimedio del pomeriggio poi, il medico più anziano del gruppo raccorda il cateterino, a una sacca di raccolta dell’urina. Quando ci congedano sono le tre del mattino. La prima nave è alle cinque. Ci mettiamo con la macchina sul porto dove io mi addormento esausto, in attesa della partenza. Lucia non riesce a chiudere occhio. Anche in nave mi appisolo, Lucia sempre sveglia. Come potrà guidare fino a Milano?

Verso le nove del mattino, subito dopo Parma, telefono in Istituto, in cerca di Massimo. Per fortuna lo trovo al primo colpo: "Ehi Fiorini! Mi stavo domandando che fine avesse fatto."

Gli racconto in sintesi cosa mi sta succedendo. Mi dice di andare direttamente da lui.

Ricorderò questo momento come la mattina delle torture. Appena arrivato Massimo mi fa accomodare in infermeria dove arriva anche un collega, un omone grande e grosso con cui si mettono d'accordo per fare una strana manovra. Massimo inizia a infilarmi un catetere nel pene, il suo collega invece, dopo avere indossato un guanto "usa e getta",  m'infila il suo ditone nell'ano cercando di pilotare Massimo nella direzione giusta. Come di consueto stacco la testa dal corpo. Dopo qualche minuto di tentativi nulli i due medici rinunciano. Massimo allora mi prega di seguirlo nel reparto endoscopia dove, con l'aiuto di un medico di reparto, iniziano ad infilarmi nel pene una serie di divaricatori di diverso diametro facendomi un male bestiale. Purtroppo, anche in questo caso, senza alcun successo. Massimo è veramente costernato: "Dovremo farti un piccolo intervento in endoscopia. Ti è venuta una stenosi dell'uretra e va incisa. Lo faremo però verso metà di settimana prossima. Ora cercheremo di infilarti un catetere pediatrico, sperando che almeno quello entri senza problemi!"

Spingi e spingi quello riesce a infilarlo. Quando mi allontano dalla sala, il collega che ha aiutato Massimo mi saluta cordialmente e mi dice con una nota di dispiacere: "Mi auguro, per lei, di non doverla vedere più qui!".

Credevo che il buon Dio mi avesse dato “questo coso” per penetrare... non per essere penetrato in questo modo… ma così va il mondo!

Durante il weekend, all'Istituto dei Tumori, i medici non sono attivi. C'è solo un dottore di guardia per le urgenze. Massimo ha già predisposto il necessario per organizzare, da lunedì, il mio piccolo intervento, cercando di infilarlo tra i suoi programmi di lavoro e trovando la disponibilità della sala e del team che dovrà coadiuvarlo, anestesista compreso.

Un ricovero di venerdì mi consentirebbe solo di rimanere in un posto dove potrei sentirmi più al sicuro, senza comunque cambiare nulla. Io invece ho il mio bel cateterino che lentamente mi svuota la neo vescica. Potrò resistere senza alcun problema per qualche altro giorno.

Nessuno ha però considerato il problema del muco. La neo vescica che Massimo mi ha ben confezionato è figlia di qualche decimetro del mio intestino. L'intestino produce muco, come quello che viene secreto dal naso, anche dopo essere stato tagliato e utilizzato per fare un altro lavoro.

Questo dannato pezzo d'intestino che costituisce la mia neo vescica non intende assolutamente dimenticarsi delle sue origini e continua a secernere muco che, inserendosi insieme all'urina nel mini catetere va continuamente ad intasarlo. È nuovamente crisi!

Sabato mattina torno in Istituto, direttamente dagli infermieri.

È di turno Anna, l'infermiera che mi ha assistito nella notte dei singhiozzi. Quando mi vede e le spiego l'accaduto mi porta in infermeria e con l'aiuto di un siringone inizia a pompare e poi risucchiare nel catetere fino a quando il blocco di muco si smuove. Anna insegna anche a Lucia il procedimento e torniamo a casa.

La cosa sembra funzionare fino alla domenica pomeriggio, poi il cateterino torna a bloccarsi.

Quando torniamo in Istituto il medico di turno decide di trattenermi e solo la grande perizia del personale interno riesce a superare i difficili momenti d'apparente impasse dei successivi svuotamenti della mia neo vescica.

Alle quattro del lunedì mattina sento la pancia esplodere. Premo il pulsante a pera per chiamare l'infermiere di turno.  Arriva Zino, sonnecchiante ma sempre sorridente: "Ancora?!"

Si assenta e torna qualche istante dopo con tutta l'attrezzatura necessaria. Inizia a stantuffare nel mio catetere, cercando anche di aiutarsi in qualche modo con le mani, massaggiando e pompando la base del pene. A un certo punto dice tra i denti, ma in modo da poter essere ben sentito da me: "Guarda te se con tutto quello che ho studiato dovevo finire qui, alle quattro di mattina, con il tuo pisello in mano!"

Scoppio in una sonora risata che cerco di soffocare per il rispetto dei miei compagni di stanza.

Quando dopo poche ore arriva Massimo e mi trova tra i ricoverati si dà un gran da fare per sistemarmi al più presto. Non riesce purtroppo fino al pomeriggio del giorno successivo. L’intervento viene fatto in endoscopia con un’anestesia rapida (un colpo di mascherina). È solo un taglietto per permettermi di fare pipì, ma deve essere molto preciso. Troppo piccolo potrebbe tornare molto presto a occludersi, troppo grande potrebbe creare incontinenza irreversibile.

Il risveglio è tranquillo. Nessun disturbo! Ho di nuovo il catetere (uno normale da adulto!)  che tengo per tutta la notte e la mattina seguente, fino all'arrivo di Massimo che chiede all'infermiere di turno di liberarmi e a me, subito dopo, di andare in bagno a fare la pipì. Grande sorpresa e grande gioia: dal mio pene è tornato a zampillare il getto dei vent'anni. Quando torno in camera sono entusiasta. È il momento del giro delle visite e tutti i dottori sono nella mia camerata, c'è anche Massimo. Non posso fare a mano di manifestare tutto il mio entusiasmo: "Caspita che getto!" esclamo.

Una giovane dottoressa mi raffredda prontamente: "è appena stato inciso. Adesso dovrà aspettare l'assestamento. Aspetti prima di cantare vittoria!".

Però per il momento mi gusto questo pizzico di felicità.

Mi dimettono subito dopo. In realtà dovrò però andare per mesi a farmi allargare il canaletto con l'aiuto di un catetere. Prima con una cadenza quindicinale, poi mensile. Massimo mi spiega che la stenosi dell'uretra è molto rara. Secondo la sua esperienza non va a incidere su più del 4% degli operati... ma può succedere. Dopo un intervento con una piccola incisione, quello del mio tipo, o si risolve subito o dopo qualche seduta di cateterizzazione. In altri casi però può richiedere addirittura ulteriori interventi. Mi dice che un suo paziente è stato operato quattro volte prima di sistemarsi, ma che alla fine è andato tutto a posto. Devo solo portare pazienza. La pazienza non è un problema: ne ho già avuta tanta fino a questo momento e non verrà certamente meno a partire da adesso.

Ormai sono un paziente esterno e, ogni volta che vedo il getto ridursi, telefono a Massimo con grande paura di disturbare. Quando glielo manifesto mi risponde: "Caro Fiorini, ci siamo entrati insieme in questa storia e la porterò fuori, stia tranquillo!".

Così lo saluto felice e rassicurato, riuscendo anche a fare le vacanze all'Elba, da metà luglio a fine agosto.

Usciamo con la nostra lancetta sul tardi, verso le quattro del pomeriggio. Quando torniamo verso le sette, nella calda luce del tramonto sento un'incredibile gioia nel cuore e non mi stanco di ripetere a Lucia: "è incredibile pensare che solo fino a un paio di mesi fa ero così conciato…”

LUCIA

Finalmente ricominciamo ad avere una vita normale e attiva. Il ritorno all’Elba mi fa paura, ma quando vedo Dado che si butta in mare e comincia a nuotare mi commuovo e penso che la parola fine è proprio arrivata. Dopo tante complicanze e problemi, finalmente chiudiamo un capitolo molto pesante della nostra vita. Nonostante tutte le ansie, le traversie e le paure è comunque un capitolo che mi ha arricchito e fatto maturare (anche all’alba dei sessant’anni).

Quando operano Gianni, il mio amico di Salerno, vado a trovarlo in Istituto. Per uno strano gioco del destino, lo trovo nello stesso letto che ho occupato durante la mia degenza. È pieno di ansie e preoccupazioni. Al suo capezzale ci sono la madre, il fratello e Daniela, la giovane moglie. È felice di vedermi brillante e in forma e così posso rassicurarlo dicendogli: "Così starai tu tra un mesetto, tranquillo!".

Come avevo fatto io in precedenza con Francesco, da questo momento, fino alla fine della sua convalescenza  sono il suo vate. Mi chiama per ogni più piccolo problema: "Edduà, oggi tiengo nu poco ‘e cacarella. Che aggio a fà?...".

"Ma cosa hai mangiato?".

"Daniela m'ha accattato nu gelatino!"

"è quello ti fa male. Contiene il latte, sei stato operato da dieci giorni ed è normale che ti venga la dissenteria!".

Intanto imparo a gestire l'incontinenza. Dal momento che con il pannolone non riesco a riposare ho trovato un nuovo espediente che mi è stato suggerito dal mio nuovo medico curante. È una specie di preservativo, però di spessore molto più consistente. La punta è troncata per consentire l'inserimento della cannula della sacca di raccolta per le urine. Ogni sera, prima di coricarmi, devo coprire la base del mio pene, per tutta la sua circonferenza, con del nastro biadesivo speciale che faccio aderire al condom, una volta srotolato. Da quando ho adottato questo sistema, torno a farmi delle dormite di otto ore. Comprendo però in fretta che questa forma di pigrizia, nel tempo, non può aiutarmi per il nuovo tipo di normalità e di recupero previsti nella mia situazione. Il mio obiettivo è andare in bagno, anche di notte, ogni due ore (a regime tre), come di giorno. In uno degli incontri per l'abituale "alesatura" Massimo me lo conferma.

Inizio così, pur indossando il condom, a cercare di fare delle piccole interruzioni del sonno, durante la notte. Controllo i livelli di urina nella sacca, poi vado in bagno e, dopo aver tolto la cannula, faccio la pipì svuotando completamente la vescica. Settimana dopo settimana vedo, con grande soddisfazione, che la sacca è sempre più vuota, fino a rimanere completamente vuota.  È venuto il momento di smettere di usare il condom e tornare ad andare a letto con la sola precauzione di un piccolo pannolino. Inoltre per essere sicuro di non fare involontari "disastri" nel sonno, ho preso l'abitudine di puntare la sveglia ogni due ore.

È da tempo che vorrei dimostrare a Massimo tutta la mia gratitudine (mi sono chiesto più di una vota se non sia una sorta di sindrome di Stoccolma, l'affetto e la dedizione per il proprio torturatore!).

Conosco ormai tutte le sue passioni, soprattutto quelle musicali, che condivido. Ho scoperto di essere nato nel suo stesso mese, luglio, e che, ironia della sorte, abbiamo lo stesso segno zodiacale, il cancro. Condividiamo anche la stessa passione per il lavoro, sebbene in campi completamente diversi. È l'approccio ai diversi  aspetti del management ad accomunarci, la visione di un ambiente di lavoro costruttivo e positivo... la forza del team e via dicendo. La musica però è il cuore.  A volte, per distrarmi, mentre mi cateterizza, mi racconta dei gruppi musicali che amava di più quand'era ragazzo ed aveva iniziato a suonare: i Dire Straits e i Jethro Tull. Mi ha detto però che la musica che ama di più, quella che suona con passione è la Bossa Nova e, più in senso lato, il genere sud americano.

Voglio innanzitutto scrivergli un messaggio, con il cuore, e poi lasciargli qualcosa di mio che non sia qualcosa di acquistato e porto con la naturale freddezza di queste circostanze. Faccio così una lunga selezione di brani brasiliani (nove ore e mezzo d'ascolto) li carico sul più piccolo lettore MP3 che ho trovato in commercio. Gli confeziono il tutto in una scatoletta... meno il messaggio, stilato su un fogliaccio di carta corrente, da blocco per gli appunti. Questa volta, quando lo raggiungo nel suo studio per farmi vedere e fargli capire che sono pronto per la piccola tortura, gli porgo con poca grazia il tutto. Massimo legge con molta attenzione il messaggio, poi apre la scatoletta e infine si alza commosso dalla sua sedia, abbracciandomi. "Diamoci del tu! " Ho toccato la sua anima. Siamo diventati amici.

CAPITOLO XIV

LA VITA RIPRENDE

Mentre sto scrivendo questo memoriale è la fine di aprile del 2014, esattamente un anno dopo la prima dimissione dall'ospedale.

La vita è tornata ai normali ritmi del passato, anche se non sono più al 100%. Per circa dieci mesi, durante il giorno mi sono protetto con un piccolo assorbente, per paura di avere delle perdite. Ora, solo per prudenza, avvolgo un po' di carta igienica intorno al pene. Non si sa mai!

L'ultima volta che ho fatto un'alesatura è stata la fine di gennaio. Sono passati tre mesi e il getto è ancora buono. Speriamo che anche questa storia sia finita. L'intestino è molto lento nel sistemarsi. Devo fare ancora molta attenzione ad alcuni alimenti, come i latticini, certi tipi di frutta e verdura, il caffè… altrimenti devo correre in bagno. Dissenten e fermenti lattici in questi casi sono il mio aiuto.

I miglioramenti però sono tangibili. Anche la chemio ha lasciato il suo ricordo, pur se momentaneo. Sotto la pianta dei piedi ho una spiacevole sensazione di insensibilità dovuta ai retaggi del Cisplatino, un sostanza molto efficace ma altrettanto tossica della miscela chemio.

E la vita sessuale? Anche per questo la "ripresa"  mi ha riservato delle piacevoli sorprese. Dopo più di un anno dall'intervento, nel contesto di un progetto di cui parlerò nel prossimo capitolo, ho conosciuto un andrologo. In quel momento le mie velleità sessuali erano state riposte, oramai in modo definitivo, nel cassetto della rassegnazione. Più per curiosità e per il desiderio di portare la mia testimonianza personale a suffragio del: "mai nulla è perduto" ci siamo visti nel suo studio e solo dopo una seduta: miracolo!

Per un minimo di privacy, non desidero entrare nei dettagli dell'argomento ma per chi ne fosse interessato "chiamatemi o scrivetemi", saprò essere esaustivo e potrò darvi anche l'indirizzo della persona giusta.

Con Massimo è rimasta l'amicizia. Una bella amicizia. Ci vediamo di tanto in tanto per una cenetta, magari con una bella strimpellata. Siamo anche andati a visitare una mostra di liuteria con esposizione di chitarre nuove e vintage e a qualche performance musicale.

L'11 marzo 2014 Lucia ha organizzato la cena dell'anniversario. L'anniversario dell'operazione, intendo.  Siamo andati in un ristorante con cucina tipica meneghina Massimo e io, i due protagonisti. Lucia, mio figlio e Giulia, sua moglie, in qualità di testimoni e ospiti speciali. Risotto con l'ossobuco, polpette e bucce di patata al forno bagnati naturalmente da una buona bottiglia di vino rosso per suggellare la chiusura di questo ciclo di vita, ma la storia non è ancora finita.

CAPITOLO XV

CONCLUSIONE - PALINURO

Verso la fine di novembre 2013 Massimo mi manda un’e-mail dicendomi che presto sarò contattato dal Team Leader del Gruppo degli oncologi, per un nuovo progetto.

Infatti dopo pochi giorni ricevo la convocazione. Intorno al tavolo, dell'incasinatissimo ufficio del giovane luminare, c'è anche Massimo. Quello che mi spiegano mi trova immediatamente dalla loro parte. Condivido al cento per cento quello che dicono e sono molto stupito nel capire che anche i medici abbiano compreso quanto sia necessario dare dei supporti conoscitivi alle persone che, come me, sono costrette a intraprendere il percorso che io in questo momento sto concludendo, a parte i controlli semestrali di routine.

La loro idea, dopo avere trovato un numero allargato di soci, raccolti tra volontari, degenti, ex -degenti o familiari e membri della comunità medico-scientifica è spingermi a fondare un'Associazione che risponda alla missione principale di informare e di assistere gli ammalati di carcinoma delle vie uroteliali, offrendo loro dei supporti conoscitivi che gli permettano di affrontare con maggiore serenità il decorso della malattia.

In soli quattro mesi di lavoro, questa idea è diventata una realtà.

Uno dei suoi primi frutti è questo memoriale, che spero possa essere un contributo costruttivo per aiutare i nuovi soci di Palinuro = Pazienti liberi dalle Neoplasie Uroteliali.

      



[1] Il plurale sta sempre a indicare la presenza della mia dolce metà. Quando stai insieme ad una persona da più di quarant’anni coniugare i verbi nella prima persona plurale diventa più che naturale!

[2] Ghesso = il ghèzz in milanese significa ramarro. Nota è la frase “Intappaa come on ghèzz” = elegantissimo. Nel linguaggio milanese moderno l’aggettivo equivale al termine: figo.

[3] Con il passare del tempo e con il maturare della mia esperienza ho avuto a che fare diverse volte con il catetere e devo francamente dire che, dopo  il fastidio dell’inserimento, non ho mai più sentito alcun dolore. Quando ripenso a quel periodo mi chiedo se quel catetere fosse di tipo particolare, o se la causa di quegli spasmi fosse determinata da una particolare situazione infiammatoria della parte.

[4]             caragnata = dal milanese caragnada, cioè pianto.


Donazioni

Fai una donazione a Palinuro, aiutaci a crescere.

Associazione PaLiNUro

c/o Fondazione IRCCS Istituto Nazionale dei Tumori
Via G. Venezian 1 -  20133 Milano

Codice fiscale - 97684280155

IBAN: IT76S0569601620000015013X96 

Segreteria

info@associazionepalinuro.com
cell. 3509084589
palinuro@pec.associazionepalinuro.com

Edoardo Fiorini - Presidente

efiorini@associazionepalinuro.com
cell. 380 7990320

Laura Magenta - Assistente alla Presidenza

lmagenta@associazionepalinuro.com
cell. 3509084589

Attenzione!!!

Le informazioni presenti nel sito devono servire a migliorare, e non a sostituire, il rapporto medico-paziente. In nessun caso sostituiscono la consulenza medica specialistica. 
Pur garantendo l'esattezza e il rigore scientifico delle informazioni, PaLiNUro declina ogni responsabilità con riferimento alle indicazioni fornite sui trattamenti, ricordando a tutti i pazienti visitatori che in caso di disturbi e/o malattie è sempre necessario rivolgersi al proprio medico curante.

© 2024 Associazione Palinuro - Iscritta al n° 554 del Registro Provinciale delle Associazioni di Promozione Sociale | PEC: palinuro@pec.associazionepalinuro.com | Credits

Menu