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Le nostre Storie

L'esperienza di organizzare il disordine

di Nadia
Neo vescica

L’ESPERIENZA DI ORGANIZZARE IL DISORDINE

 Io ho sempre cercato di programmare tutto, con anticipo.Con largo anticipo.E in questa costante ricerca verso la perfetta organizzazione, ovviamente, cercavo di prevedere l’imprevisto, la sua miglior gestione, il “piano B” che riducesse al minimo ogni eventuale disagio. A scuola, poi all’università, con mio marito e naturalmente anche quando la nostra famiglia ha accolto il dono più grande, il mio bimbo che oggi ha tre anni. Ecco, a 38 anni, un tumore alla vescica T2-G3 non lo avevo decisamente messo in conto.Da quell’istologico, qualcosa è decisamente cambiato, per tutti noi.

CAPITOLO I

 

L’inizio

“Normale”, io mi definirei così: una vita regolare, mai fumato, astemia, sportiva quanto basta, assolutamente non fanatica dell’alimentazione sana a tutti i costi o di qualsiasi estremismo in genere. Donatrice AVIS, ottima salute, insomma: una donna di 38 anni come tante! Questa nuova parentesi della mia vita, posso aprirla nel mese di luglio 2014, che si caratterizza per un episodio apparentemente non eclatante: una banale cistite, fastidiosa infezione delle vie urinarie risolta con un antibiotico in pochissimi giorni. Sinceramente un po’ mi stupisce perchè non mi è mai capitato in passato, mi conosco, so che di inverno il mal di gola non mi molla, il mal di testa mi viene a trovare almeno 1 o 2 volte al mese, ma relativamente all’apparato urinario non avevo proprio nulla da segnalare! Il medico di base minimizza perché “nella donna è un problema frequente, anzi: la cosa strana è che non ne abbia mai sofferto!”. Episodio archiviato, è luglio, le vacanze sono prossime e il pensiero si concentra al relax che il vicino mese di agosto in montagna ci regalerà.

 Ultimo giorno di permanenza in montagna: nuovo episodio di cistite, piuttosto doloroso questa volta. Non riesco a giocare con mio figlio al parchetto e consigliata dal farmacista del piccolo paesino della Val D’Aosta prendo un diverso antibiotico. Il giorno successivo, ormai rientrati a Milano, sto decisamente bene: nessun dolore o bruciore, sensazione di minzione frequente. Ma un nuovo sintomo, allarmante: ematuria, ossia sangue nelle urine. Avevo già deciso di fare degli accertamenti, ma speravo di poterli almeno spostare al mese di settembre, invece preferisco recarmi al vicino pronto soccorso.

 Nuovamente vengo tranquillizzata: addirittura non viene effettuata l’accettazione per me, l’infermiere di turno mi spiega infatti che si tratta di normale cistite emorragica, potrei anche avere dolori fortissimi ai fianchi e febbre altra. Inoltre sono sotto antibiotico da due giorni, fare degli esami non avrebbe senso perchè bisogna aspettare che la cura sia completata. Bene… insomma, abbastanza bene… Qualcosa non mi torna, ma io mi sento fisicamente bene, finora il mio medico di base, un farmacista e un infermiere hanno tutti dato a questi episodi un’importanza relativa e dunque io mi fido. O forse, con il senno di poi, ammetto che decido di fidarmi perché era più facile vederla così…

 A settembre incontro la mia ginecologa che dà la propria diagnosi: lavoro nuovo, trasloco abbastanza recente, un bimbo di due anni e mezzo, marito impegnatissimo e in giro per il mondo per lavoro, ovvio che tutto lo stress porta alla cistite! Mah,  personalmente trovo che quando non si riesce ad identificare correttamente la causa di un problema, sia comodissimo attribuirla allo stress, questo magico contenitore dai confini estensibili all’infinito che tutto può contenere! E’ un po’ come quando si archiviano i file: le cartelline che li contengono possono essere organizzate per bene, indicare cioè quello che poi troveremo all’interno… se però uno di questi contenitori si chiama “varie”, allora è la fine: troveremo qualsiasi cosa, ossia non troveremo davvero quanto stiamo cercando!!!

 A ottobre ho già programmato una visita con un urologo, dal quale mi reco con esami delle urine negative, qualche valore borderline, ma nulla di chè… si decide per altri esami del sangue e delle urine e una ecografia all’addome e alle vie urinarie, “solo per scrupolo, escludiamo qualsiasi altra cosa” . E il 22 ottobre l’ecografista mi chiede, con la sonda premuta sull’addome, se fumo, se ho fatto un particolare esame delle urine per la ricerca delle cellule… “Quali cellule? Io non ho fatto nulla”. Mi spiega che il referto sarà pronto il giorno dopo, non mi dice una parola ulteriore e mi consiglia di andare da un bravo urologo perché la neoformazione papillare di circa 3 cm x 3 cm ben evidente, va asportata prima possibile.

 Da lì il film inizia a correre veloce, qualcuno ha premuto sul tasto FF e la cosa non mi piace perché rende tutto difficile e nebuloso, corse, ipotesi, paura, tutto in una giornata che non era iniziata per proseguire in quel modo. Avevo accompagnato mio figlio alla scuola materna promettendo corse sfrenato al parchetto nel pomeriggio, ma non le avrei fatte.

 Telefono al medico di base, anzi, vado di persona in ambulatorio perché è importante la questione. Lui riflette prima di pronunciarsi, tentenna, “ma un papilloma non è una forma tumorale maligna…, ha proprio usato questa espressione l’ecografista? Dobbiamo aspettare di ritirare l’ecografia domani, così forse…” mi dice che non ha dimestichezza con la materia, non vuole darmi informazioni inesatte, decidiamo subito per una visita presso l’Istituto dei Tumori di Milano. E’ la cosa migliore, comunque sappiamo che si dovrà intervenire chirurgicamente e solo a posteriori l’esame istologico ci dirà di più, quindi tanto vale iniziare questo percorso in via Venezian… La corsa non si ferma: a due giorni dall’ecografia, il primo urologo disponibile è il Dottor Massimo Maffezzini.

 Ma non è in questo frangente che capisco esattamente lo scenario, è qualche giorno più tardi quando torno in Istituto per i risultati della TAC che il dottore mi ha chiesto di fare: mi spiega che questa neoformazione è un tumore e tutti i tumori che lì hanno origine sono maligni. “Dobbiamo asportarli e analizzarli perché solo allora sapremo se dobbiamo combattere contro dei gattini o delle tigri”. La TAC conferma che tutto è confinato alla vescica, non c’è altro, ma io adesso ho paura. Ho paura della tigre e da donna matura di 38 anni, accompagnata in quell’incontro da mio marito, madre di un bimbo, piango come una disperata, non mi trattengo, non ho ritegno o vergogna nell’asciugarmi il viso con le mani perché i fazzoletti non mi bastano.

 Quello è stato lo spartiacque: indipendentemente dal docile gattino o dalla tigre più aggressiva, io passavo ufficialmente da “sana” a “malata”. L’equilibrio perfetto si era incrinato e io, che tendevo ossessivamente a organizzare tutto per tutti, dovevo accettare il fatto che da quel momento la mia sfera d’azione si riduceva totalmente.

 Certo: non sapevo ancora nulla, ma avevo già capito che qualcosa stava cambiando. E non conoscere esattamente la nuova direzione della mia vita faceva davvero paura.

 Una cosa però mi ha sempre stupito: il dottor Maffezzini mi spiegava che generalmente questo tipi di tumori non dà sintomi, mentre io avevo forti dolori, bruciori, eppure le analisi delle urine non identificavano mai un batterio responsabile. Alla fine, durante l’ultimo violento attacco di fine ottobre si palesa una colonizzazione di stafilococco aureo, ossia il responsabile di tutta quella sintomatologia estrema ed insopportabile, che da luglio non mi ha abbandonato fino agli ultimi accertamenti di ottobre.

 Non lo avrei mai detto, ma mi trovo a dover ringraziare anche lui, il caro stafilococco aureo, intruso scomodissimo che mi portato ad un’ecografia all’addome e alle vie urinarie, rivelatrice del tumore che silenziosamente cresceva in vescica… indisturbato fino ad allora.

 

CAPITOLO II

L’istologico

 Ad inizio novembre vengo operata, arrivando all’intervento con paura e pessimismo. Penso già che con un bimbo, qualsiasi cosa mi accadrà, sarà durissima sul piano emotivo e pratico: che il tumore sia relativamente poco aggressivo o al contrario forte e desideroso di vincere la propria guerra, io non potrò mai più essere la mamma di prima, dovrò delegare, dovrò chiedere aiuto, dovrò rinunciare al tempo meraviglioso che trascorro con mio figlio. E mio marito mi dovrà supportare più di quanto non faccia e mia madre come potrà reggere ad eventuali brutte notizie e mi manca l’aria e piango e più continuo a piangere e più manca il respiro.

 La sala operatoria mi accoglie per 40 minuti, il dott. Maffezzini è gentile, rassicurante e paziente nei confronti di una donna che riesce a stento a trattenere le lacrime. La resezione endoscopica della massa viene effettuata in anestesia locale, dura poco e obiettivamente non lascia dopo di sè dolore, al massimo un po’ di fastidio. In terza giornata vengo dimessa e da qui parte l’ansia per il risultato dell’istologico, cosa che non mi abbandona neanche durante la notte: sogno addirittura di essere guarita, il risveglio però mi riporta all’opposta realtà.

 Quando il dottore mi convoca per la lettura dell’istologico, mio marito è con me. E al mio fianco apprende che si tratta di T2, G3: il tumore è confinato nell’organo, ma ha eroso parte della muscolatura e il suo grado di aggressività è massimo. Io ho già capito tutto, chi mi sta affianco ha gli occhi curiosi e ancora sereni e ne deduco che l’asportazione e conseguente ricostruzione della vescica non lo sfiorano neppure. Avevo letto, mi ero informata molto perché io nell’animo sono (o forse ero?) quella che organizza in anticipo e cerca di non farsi cogliere impreparata. Se devo essere onesta, ricordo poche frasi di quel colloquio. La mente tende a selezionare le informazioni e ricordare quelle utili: se mi concentro, riesco ancora a sentire la voce del dott. Maffezzini che mi dice che non è una sentenza di morte e che sarà lui ad operarmi nuovamente. Nei giorni a seguire ho ripetuto in sequenza queste parole come un mantra perché a qualcosa bisogna aggrapparsi e io in questo medico ci ho sempre creduto ciecamente e le sue parole, in questo lungo percorso, mi sono sempre state di conforto ed aiuto.

La chemioterapia

 Dopo una settimana ha inizio la chemioterapia che precede l’intervento. Mi viene spiegato che potrei evitarla e decidere di farmi operare immediatamente, ma in questo modo dovrei scommettere su me stessa che il tumore non è, nel frattempo, andato altrove… Il calcolo probabilistico era affascinante all’università, pensarlo applicato a possibile cellule tumorali in giro per il mio corpo assolutamente no, quindi accetto senza esitazione la strada che prevede 4 cicli di chemioterapia, seguiti da un mese di pausa e infine dal nuovo intervento. Arrivo quindi in Istituto con l’atteggiamento peggiore: mi sento diversa da tutte le persone del reparto. Io sto bene, ho (ancora) i capelli, la forza e non accetto di essere passata dalla parte dei “malati”.

 Ma qui non è richiesto il mio parere perchè il tumore non ti domanda a che punto sei della tua vita e se hai spazio per lui. Non si accerta tu sia pronta ad accogliere questa prova, non aspetta e non fa sconti. Non bussa, butta giù la porta e da lì non si sposta. E io mi piego alla mia prima chemio, forse più per non deludere e far soffrire i miei cari che per salvare me stessa: io sono fortunata perché ho una famiglia piena di amore, quasi stucchevole da quanto è presente ed affettuosa. Siamo di quelli che si chiamano 10 volte al giorno, sì, esistiamo davvero! E’ sempre stata eccezionale e ovviamente ora ne dà massima dimostrazione… ma so che siamo dei vasi comunicanti mia madre, mio fratello, mio marito ed io: non posso crollare perché alla lunga trascinerei anche gli altri, dobbiamo sostenerci a vicenda e capire che ora è il momento del fare, non si pensa, non si barcolla, ma si percorre l’unica via possibile. Devo affidare il mio corpo ai medici, la mia anima al Signore ed impegnarmi ancora non so come!

 La chemioterapia prevede 4 cicli, ogni 21 giorni e dopo 7 giorni dalla prima infusione (la più pesante dal punto di vista degli effetti collaterali) un richiamo di uno dei due farmaci precedenti, oltre ad un chemioterapico in pastiglie da assumere mattina e sera. Iniziando a fine novembre 2014 si termina a metà febbraio 2015 circa.

 Il primo ciclo è stato pesantissimo: lo stomaco accusava dolori fortissimi, il fiato non c’era più e un’astenia totalizzante non accennava a diminuire. Quando pensavo di aver esaurito anche le ultime forze, il chemioterapico quotidiano mi provoca un rash cutaneo violentissimo e per 5 giorni tutta la mia superficie corporea è ricoperta da bolle rosse e dolenti al tatto, la febbre si stabilizza sui 38 gradi e io temo non passi più. La mia pelle è viola in molti punti, le palpebre quasi non si aprono e il gonfiore cambia e deturpa i miei lineamenti. Mi vergogno quando mio figlio viene a cercarmi nel buio della camera da letto e piango dalla rabbia (perché non è giusto, non lo è e basta!), quando mi dice che assomiglio ad una modella della pubblicità (per di più bionda quando io sono decisamente mediterranea): per lui sono sempre la mamma e qui il tumore perde 10-0 la battaglia, perchè non è certo un rash a spaventare il mio monello.

 Il risultato è sospendere il farmaco, tempo una decina di giorno e ritorno quella di prima… Prima lezione: per quanto un sintomo possa essere doloroso e insopportabile, bisogna credere alle parole dei propri medici che assicurano passerà…

 Iniziano a passare anche altri fastidi o forse divento un po’ più esperta nella loro gestione: i pasti leggeri e frequenti aiutano, il limone non può mancare per la nausea, scopro che il pane tostato e il formaggio calmano il mal di stomaco e il senso di pesantezza generale scompare se cammino. E allora ogni giorno mi invento delle mete: commissioni per mia madre distanti almeno un chilometro da casa, mi porto avanti con i vestitini che il mio bimbo indosserà nei prossimi mesi, provo un supermercato più distante con la scusa di voler vedere se c’è qualcosa di diverso dal solito. Quando cammino, io che ero abituata a correre 10 km al giorno, non penso, “esco” dalla mia testa e magicamente le gambe vanno avanti da sole e le braccia le accompagnano ondulando di qua e di là… Il pomeriggio trascorre con mio figlio, giochi molto meno avventurosi, ma a me basta vederlo per essere al massimo della gioia.

 Arriva il secondo ciclo di chemioterapia e proviamo a riprendere il farmaco responsabile del rash: puntuale, lo sfogo si ripresenta e si decide per una nuova sospensione. Però qualcosa sta cambiando: non so in quale momento, forse è stato un processo non brevissimo e non è possibile identificare un momento preciso. Scatta però qualcosa: non accetto l’idea di non riuscire ad assumere queste pastigliette rosa che comunque rappresentano un’arma in più contro il tumore. Se tutti lo prendono, devo farcela anche io. Adesso mi sento forte, se prima non potevo farcela ad andare avanti, ora sento che non posso potevo farcela a mollare… perché non è una sentenza di morte e io non cedo senza aver dato il massimo. E dai: c’è un chirurgo che professionalmente e umanamente pare sceso dal cielo, una equipe di altri medici presenti, sensibili, una famiglia unica e io rovino il lavoro di tutte queste persone gettando la spugna?

 Forse mi è bastato frequentare un po’ l’Istituto dei Tumori e vedere che molti, troppi pazienti, soffrono decidamente più di me, hanno percorsi alle spalle e prospettive future peggiori eppure non si lagnano e combattono. Seconda lezione: non sono al centro dell’universo, ho avuto tantissima fortuna nello scoprire questo tumore in una fase operabile, altri non possono dire la stessa cosa…

 Perché è accaduto proprio a me? Non lo so, ma credo che il tumore sia ingiusto nella vita di ogni essere umano, ancor più quando sceglie un bambino. Un recente articolo di Science spiega [1]“chi è colpito da un tumore, in molti casi sarebbe stato solamente colpito da sfortuna. Questa l’opinione di ricercatori della Johns Hopkins School of Medicine. La loro ultima ricerca chiama in causa quelle che moltissime ricerche fino ad oggi hanno individuato come fattori di rischio o cause dirette di molte neoplasie: stili di vita poco sani, difetti genetici o l’ambiente in cui si vive. Due terzi dei tumori secondo i ricercatori, sono imputabili a mutazioni genetiche (quindi “al caso”) piuttosto che  stili di vita sbagliati.

 E allora si ritorna sempre lì: non c’è alternativa se non percorrere questa strada. Accettare di essere malata come tanti altri e avere un nuovo obiettivo: curarsi.

 In reparto, durante il secondo ciclo di chemio, conosco qualche paziente ricoverato… recupero gli indirizzi e-mail di due compagnie di stanza conosciute durante il primo ciclo e ne nasce un piacevole scambio di lettere virtuali. Scopro che è un piacere per l’anima ascoltare gli altri, mi danno moltissimi con i loro racconti. Mi stupisce la facilità con la quale chi passeggia nel corridoio entra nella mia stanza in punta di piedi e si apra, forse perché io sono sempre stata riservatissima anche nelle cose belle: ho atteso la fine del sesto mese di gravidanza per dare la notizia ad amici e colleghi, aiutata da un pancino poco evidente. Io sono fatta così, non riesco ad esternare… ma in questo frangente tutto è diverso: uomini con il doppio dei miei anni, esperienze di vita lontanissime, mi parlano, si confidano e si rivelano ottimi ascoltatori! Forse anche io ho qualcosa da dare, forse il terreno arido che sento dentro può essere invece ancora fertile per gli altri. In tutto questo percorso però non ho mai, al di fuori dell’Istituto, parlato molto della malattia. Forse perché mio marito ed io lo abbiamo fatto con degli amici che nel giro di qualche settimana sono spariti, neanche qualche telefonata di circostanza, nulla. Dispiace, inutile far finta di nulla, fa male… anche perché speravo che il loro calore potesse sostenere soprattutto mio marito perché chi ci è accanto soffre anche più di noi. Ma non possiamo farci nulla, abbiamo voluto vedere questo allontanamento come la prova che certe persone non sono “amici” nel significato più profondo del termine. E a poco vale la giustificazione che spesso ho sentito nelle settimane successive, forse hanno avuto paura… Io credete che non l’abbia avuta quando ho scoperto di avere un tumore a 38 anni, nel pieno della mia vita, con un dono di Dio di 3 anni???

 Ritornando al secondo ciclo di chemioterapia, vinco la battaglia contro un nemico fortissimo: la parte di me che remava contro, quella che non accettando la malattia sprecava energie senza concentrarle verso il tumore. E mi prendo la mia piccola grande soddisfazione: riesco anche a prendere il famoso farmaco colpevole del rash perché il cortisone si rivela un ottimo alleato per tollerarlo senza ulteriori sfoghi cutanei. Certo, il peso aumenta e mi vengono due belle guanciotte da bimba paffuta, ma finchè mio figlio mi vede bella, io non temo molto dal punto di vista estetico. Cadono anche i capelli, il periodo è più o meno Natale e ne ero stata avvisata. Non è stato facile accettare dapprima le chiazze, i ciuffi di capelli a terra e poi la testa completamente calva, ma il cambiamento in me era ormai avvenuto e soprattutto dopo aver conosciuto la vera sofferenza (negli altri pazienti, non certo mia), non potevo assolutamente lamentarmi per così poco. Ho anche imparato a scherzare su questo argomento: a volte quando mio marito mi telefonata durante la giornata chiedendomi se avevo in programma qualche giretto, gli dicevo che da lì a breve sarei andata dal parrucchiere per fare la piega, probabilmente dei boccoli…

 Il tempo vola e arriva anche il terzo ciclo di chemioterapia: rivedo alcuni pazienti incontrati prima e nuovamente lo scambio che ne nasce è intenso, porto a casa (e nel cuore) i loro racconti, madri che hanno avuto vite incredibili e forse il tumore non è neanche la tragedia maggiore, uomini che macinano centinaia di km per le terapie, tutti comunque coraggiosi, a volte impauriti come me, ma combattivi e forti. Io ho solo da imparare, vorrei poterli ascoltare per ore perché è un arricchimento che nessuna altra esperienza della vita mi darà. Se ho passato il primo ciclo attaccata al cellulare, nei successivi ho appena avuto tempo per un saluto veloce a mio marito e a mia mamma! Porto sempre un libro con me, su Medjugorie perché sono credente, ma non riesco ad andare oltre la terza pagina… c’è sempre un valido motivo per distrarmi ossia un paziente, un malato come me, che non ha ancora capito quanto mi sta aiutando donandomi il proprio tempo.

 Il quarto ciclo di chemioterapia per me sarà parziale, nel senso che a causa di un abbassamento delle piastrine, non è stato possibile fare il richiamo: poco male, può capitare e di certo non compromette nulla. E’ il 29 gennaio 2015, data per me indimenticabile!

 E ora si apre un intero mese libero da flebo, effetti collaterali e continua frequenza in Istituto, quello mi aspettavo… E invece prima dell’intervento il corpo ha un po’ ceduto: l’influenza in febbraio ha messo in ginocchio gran parte degli italiani, era ovvio colpisse le mie già poche difese immunitarie, pesantemente indebolite nei mesi precedenti. Poi un calo di piastrine mi ha portato una fastidiosa epistassi, nonché tre prelievi del sangue in una settimana per monitorare il loro andamento e programmare, nel caso, una trasfusione, fortunatamente poi scongiurata. Per concludere, una tosse decisa e affezionatissima ai miei bronchi, in grado di non farmi dormire per una settimana circa. Gli oncologi però non si sono stupiti: è normale l’organismo abbia certe reazioni, affidare il proprio corpo a chi ne sa più di noi e attendere tutto passi è l’unico compito del paziente.

 [1] “The bad luck of cancer”, Jennifer Couzin-Frankel – Science, 2 January 2015, Vol. 347 no. 6217 p.12.

 

CAPITOLO III

L’intervento

Sono arrivata all’intervento volontariamente “impreparata”: ho chiesto certo al chirurgo che mi avrebbe operato, il medesimo del primo intervento, cosa sarebbe successo sul tavolo operatorio, come avrei trascorso i giorni a seguire in ospedale e la mia ripresa successiva, lontana dall’Istituto e più vicina a quella che ero io un tempo… Ma il tutto a grandi linee, senza entrare nei dettagli, senza ipotizzare possibili complicazioni: la lezione numero tre vuole che sia inutile agitarsi per quello che può succedere durante e dopo un’operazione, si rischia solo di avere più paura di quella che già naturalmente abbiamo.

Così arrivo in ospedale la sera precedente, un po’ di tv e poi spengo la luce e dormo. Davvero, nessun pensiero, stacco il cervello come quando cammino per km. E la mattina seguente, poco dopo le 7, saluto il mio chirurgo e inizia l’operazione: dopo 7 ore circa rivedo mio marito, ma non ricordo molto ovviamente… però mi pare fossi tranquilla, già svegliarmi era o no un ottimo segno? Ho una nuova vescica ortotopica, derivante dal mio intestino. Questo – sempre a grandi linee – il risultato.

La degenza

I primi giorni post-intervento sono stati un po’ difficili, ma assolutamente non impossibili e detto da una fifona come me, è assolutamente credibile. Io ho sempre condiviso poco con estranei e per me gli infermieri erano tali: bravissime persone, ma io non conoscevo nessuno di loro anche perché ogni mio ciclo di chemioterapia si era esaurito in giornata, a differenza di molti pazienti che invece si fermavano la notte immediatamente successiva all’infusione avendo così modo di familiarizzare con l’ambiente…

Eppure in loro ho trovato tutto il coraggio che l’operazione sembrava aver portato via: è naturale dipendere dagli altri in tutto, i primi giorni soprattutto ogni movimento è abbastanza limitato e anche il più piccolo gesto può non essere come siamo abituati a compierlo. A questo punto entrano in gioco gli infermieri e la loro umanità: sono stata compresa nei miei momenti di abbattimento e aiutata a tirar fuori la grinta. Nella pratica mi hanno insegnato a gestire i dolori e fastidi che sempre con minor frequenza si presentavano, ho avuto risposta a tutte le mie domande, trovando quindi persone non solo disponibili, ma preparatissime. Delegare loro la mia igiene personale, cosa per me impensabile, è stato semplicissimo, perché ho avuto accanto persone sensibili e discrete, che mai mi hanno fatto sentire in imbarazzo.

Per il resto, non posso negare che gli antidolorifici hanno fanno molto… ma qui nuovamente è merito dei medici e degli operatori che non hanno sottovalutato il mio dolore, hanno sempre cercato di prevenirlo e combatterlo appena si presentava.

La fortuna ha fatto il resto, la mia degenza è durata 14 giorni, nessun imprevisto o complicazione si è presentata. A distanza di una settimana dalla dimissione ho solo avuto una noiosa interite, brillantemente risolta con punture intramuscolo di antibiotico… e a dirla tutta ricordo queste iniezioni come una delle cose più dolorose di tutto il percorso, forse perché fatte dall’abile mano di mio marito che mai prima di allora si era cimentato in tale attività?!?!

CONCLUSIONI

  Mi trovo a neanche due mesi dall’intervento, non posso quindi dire più di tanto della mia nuova vita… o forse sì, perché al di là della pratica (per altro la gestione della neovescica è assolutamente semplice, solo qualche accortezza e nulla più) è la prospettiva che è per sempre cambiata. Non nego di vivere con il calendario alla mano per i prossimi controlli, sembrano esami difficilissimi da affrontare perché non posso prepararmi e studiare, non servirebbe a garantirmi un 30 e neppure un misero 18! Ma so che la mia quotidianità non è cambiata, forse basta dire che posso occuparmi tranquillamente di mio figlio…

Ora sto bene e sono certa che se ho superato gli ultimi mesi è non solo per l’ottima assistenza medica ricevuta. Sono certa l’attenzione estrema a Nadia, e non al paziente generico, abbia avuto un ruolo fondamentale all’interno dell’Istituto: dai medici agli infermieri, tutti mi hanno aiutato tantissimo, sostenuta e incoraggiata come purtroppo qualche familiare e moltissimi amici, che frequentavo da anni, non hanno fatto. Io so che non mi sono mai sentita sola, mai. Sapevo che quando soffrivo, tutti erano concentrati nel farmi patire meno possibile. Mai ho fatto una domanda che non ha avuto risposta. Nessuna richiesta di aiuto è rimasta inevasa, affetto e risoluzione pratica dei problemi sono arrivati nel minor tempo possibile. E’ per questo che mi sento di consigliare, nella mia piccola esperienza, di non vivere da soli questi momenti: l’associazione PaLiNUro, nasce con questo nobile scopo: la famiglia, gli amici, un supporto psicologico sono importantissimi, ma una mano è sempre tesa anche da chi ha già dovuto percorrere questa strada tortuosa. E’ facile sentir parlare di tumore al seno o ai polmoni (e rivolgersi quindi alle relative associazioni), ben diverso è soffire di un carcinoma come il nostro…

Personalmente, ho trovato tutto nella persona del Presidente di PaLiNUro, Edoardo Fiorini: mi è stata accanto fin dalla prima chemioterapia in un modo che mai avrei immaginato e non mi ha abbondato più. Discreto, ma presente, sempre pronto ad esserci, senza però imporre la sua presenza. Si è stabilito un contatto speciale, profondo e per me vitale: so che mai sarei arrivata oggi a questo punto senza la comprensione e i consigli di Edoardo. Pensavo la differenza di esperienze di vita non ci avrebbe permesso una grande empatia, ma ovviamente mi sbagliavo! Lezione numero 4: chi vuole davvero aiutarti, riesce a farlo al di là di mille apparenti e stupide differenze. Che sia un medico iperspecializzato e tu una persona comune con poche conoscenze in ambito scientifico, che sia un anziano e tu un adolescente, che sia un perfetto sconosciuto… Perché nessuno ci può dare la garanzia di farcela, ma sapere di non essere soli è il primo passo per non mollare.

- nadia -


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