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Le nostre Storie

Io e il cancro

di Giusy E. (PD)

Le riflessioni apparse oggi in chat mi hanno fatto ricordare che esattamente un anno fa mi hanno chiamato dall’urologia di Padova.

Nel mese di Agosto 2023, poco prima di partire per le vacanze, mi è comparsa la cistite, o almeno quella che pensavo fosse cistite. Qualche episodio di fastidi da 1-2 giorni c’era gia stato, ma l’avevo ascritto alla menopausa in arrivo e non gli avevo dato peso. Ad Agosto è stato diverso: avevo bisogno del bagno molto spesso, sveglie costanti di notte. Torno a casa e provo a contattare il mio medico, ma è in vacanza. A Settembre sto meglio e non ci penso più.   Novembre ricomincia peggio di prima finalmente ne parlo con il mio medico; intanto antibiotico, analisi delle urine con urinocultura, ecografia.

La prima volta che sento parlare della patologia è dal radiologo, che mi dice testualmente “E’ un polipo alla vescica, va tolto”. Nella mia suprema ignoranza non associo polipo e tumore; mando le immagini e il referto al mio medico che in un paio d’ore mi chiama dicendomi che mi sta mandando impegnativa per visita urologica con priorità alta. Chiedo se devo preoccuparmi, il mio medico mi dice di stare tranquilla e di non mettere il carro davanti ai buoi. Io ancora non avevo capito.

Vedo l’urologo. Non faccio in tempo ad entrare che gia chiedo cosa c’è di urgente in un polipo, che si, d’accordo, mi causa cistiti, ma insomma, mica si muore. L’urologo alza gli occhi e mi dice che non esistono tumori benigni alla vescica, ma tumori superficiali o muscolo penetranti. E’ in quel momento che capisco che il polipo è un tumore.

L’urologo mi dice di non preoccuparmi, che il tumore è piccolo, che apparentemente non ha intaccato i tessuti circostanti, che lui mandava tutto all’urologia di Padova per l’operazione, che l’operazione non era niente di che, una specie di raschiamento e di stare tranquilla.

Torno a casa e alla famiglia continuo a parlare di polipo, non di tumore.

A Gennaio faccio la TURV; alla dimissione mi dicono che il polipo rimosso sarebbe stato analizzato.  Era Venerdì; la settimana successiva lavoro da casa più per insistenza di marito e mamma che per altro, quella dopo rientro a lavoro. Sto bene, non ho più cistiti o disturbi, mi fido di quello, non penso neanche un istante che la mia storia con il reparto di urologia possa avere un seguito.

Arriviamo all’8 Febbraio. Era un mercoledì, era mattina, ero in ufficio e ricevo una telefonata sul telefono personale con prefisso 049. La persona all’altro lato del telefono si presenta come medico di urologia e mi dice di passare l’indomani alle 11,30 in reparto per parlare con la dottoressa che mi segue. “Mi dispiace, domani mattina non posso, se vuole fissiamo per Lunedì”. Il dottore in modo gentile ma fermo, mi dice che devo andare il 9 alle 11,30 perché è importante; provo a chiedere ulteriori informazioni, ma il medico mi dice che devono parlarmi di persona.

La sera ne parlo con mio marito, che senza pensarci mi dice “Sicuramente non è niente, ma ti accompagno”.

La mattina del 9 mi dicono che ho un tumore di quelli brutti -cT2 cN0 cM0 GX, II Stadio – per fortuna no metastasi e mi illustrano il percorso clinico: chemio adiuvante e successiva cistectomia radicale con costruzione di una neo vescica. Chiedo se si può risolvere con la sola chemio, la risposta è no. Chiedo cosa cambierà. La dottoressa mi dice che cambierà il mio modo di fare la pipì, che inizialmente sarò incontinente, ma che la situazione almeno di giorno ha buone possibilità di risolversi in brevi periodi, mentre quella notturna è più complicata. Mi dice che dopo l’operazione con i dovuti tempi tronerò a fare quello che facevo prima. Chiedo che possibilità ho di guarire, mi dice molto buona; chiedo cosa mi succederà se decido di non fare nulla, mio marito interviene con un “non dire cazzate”.

Apparentemente prendo la notizia relativamente bene. Fuori dall’ospedale dico a mio marito che è merda, ma mi sembra di aver capito merda gestibile, che la cosa peggiore mi sembra dover raccontare tutto a mamma. Torniamo a casa, accendo il PC e mi metto a lavorare; cena, TV, vado a letto e dopo qualche ora mi sveglio urlando.

L’idea della chemio non mi ha mai fatto paura, la chemio ha un inizio e una fine, da contare in 4 cicli. Gli stessi oncologici si sono sempre detti colpiti dal modo in cui ho affrontato l’astenia (per lo più ignorandola) e gli effetti collaterali. Quello che mi toglieva il sonno era la cistectomia. Li non c’era un inizio e una fine, c’era un primo e un dopo e io oltre alla linea rossa dell’operazione non vedevo nulla. L’ho scritto, la dottoressa mi aveva detto che sarei tornata a fare quello che facevo prima, ma cosa sapeva la dottoressa di me? Sapeva solo che sono donna, 52 anni, con un tumore. Cosa sapeva di un lavoro impegnativo che mi sono dovuta guadagnare, della passione per i viaggi, delle camminate di giorni in montagna, dei libri sempre nello zaino, dei programmi fatti e cambiati all’improvviso perché si? Cosa ne sapeva della mamma in Toscana che vai a trovare 1 o 2 volte al mese? Cosa ne sapeva della confidenza che ho sempre avuto con il mio corpo? Cosa ne sapeva dell’immagine che ho di me?

Mi sono messa a cercare in rete e ho trovati studi sulla qualità della vita dei neo-vescicati. Mi sono sentita peggio; peggio nel senso che vomitavo dopo mangiato e continuavo a non dormire. Mio marito – che è un santo - mi suggerisce di parlare con qualcuno che ha subito l’operazion.  Dico che ne scriverò alla dottoressa, ma ne esce una mail delirante, di cui mi vergogno ancora oggi, in cui sostanzialmente la accuso di mentire sapendo che mente. La dottoressa reagisce con una telefonata in cui mi dice di aver chiesto per me allo IOV l’attivazione del sostegno psicologico (richiesta che scopriamo poi è andata persa in un passaggio di consegna). Quasi contemporaneamente ravanando in rete trovo l’associazione Pailnuro e dal bagno dell’ufficio mando una mail: fatemi parlare con qualcuno, anzi con una donna, possibilmente della mia età.

Edoardo mi risponde quasi subito mettendomi in contatto con Anna e con Daniela, Daniela mi fa parlare con Raffaella. Il sonno l’ho riguadagnato soprattutto parlando con queste donne meravigliose che non finirò mai di ringraziare abbastanza. I loro racconti mi hanno fatto capire che le cose dopo la cistectomia cambiano, ma che alla base ci siamo NOI, quelli che siamo al momento dell’operazione, con il nostro vissuto e il nostro bagaglio di sfide vinte e perse, di lezioni imparate e di resilienza e che bisogna fidarsi di noi stessi.

Comincio la chemio. Come dicevo affronto l’astenia e i disturbi a colpi di forza di volontà e senso dell’umorismo e riesco a interrompere la mia normalità solo i Venerdì in cui sono allo IOV. Il mio corpo però non è d’accordo con il mio cervello e all’ultimo ciclo gli esami sballano tutti: sistema immunitario, ferrina… Il team medico decide di prendere il rischio di ritardare di massimo 10 giorni l’intervento per sottopormi ad un programma di PBM.

Ho ricevuto la chiamata con la comunicazione della data dell’intervento mentre ero in fila in auto, bloccata da una corsa ciclistica.

A quel punto ero più o meno rassegnata all’idea di dovermi operare e mi ripetevo come un mantra che avrei affrontato la neo vescica un passo alla volta, che vita e lavoro non hanno fatto altro che insegnarmi che non bisogna provare a mangiare l’elefante tutto in una volta, ma che dovevo farlo a pezzi e prendere i bocconi che riuscivo a gestire uno alla volta. Ho chiamato mio marito, ho chiamato mia madre e mia sorella. “Ci siamo, ho la data, ho paura. Aiutatemi ad arrivare fino alla sala operatoria”.

Mi hanno operata Lunedi 26 Giugno 2023.

Non ho molti ricordi del giorno dell’operazione, se non che ho salutato i miei nel tragitto verso la sala operatoria e al ritorno in camera. Ricordo anche i chirurghi che mi dicevano che era andato tutto bene. La degenza in ospedale invece la ricordo, perché l’ho odiata. Al giorno due già chiedevo quando mi avrebbero mandato a casa, al giorno 4, con la sacca del sangue attaccata, insistevo per negoziare le condizioni del rilascio. 9 giorni di degenza e li ho odiati tutti.

Torno a casa tutta cablata. Tubo di drenaggio infilato nel fianco con sacca di raccolta, tubi della pipì che escono dall’inguine con sacca di raccolta, catetere e relativa sacca. Alla prima notte nel mio letto riesco ad intrigarmi nei tubi e a staccare una delle sacche; dalla notte successiva quando attacco le sacche notturne rafforzo con del nastro da elettricisti. Tolto questo inconveniente non ho problemi a gestire la pulizia del catetere o il cambio della sacca attaccata al ventre; la mattina mi sveglio presto ed esco a fare una passeggiata via via più lunga; mamma, che si è trasferita da me per la convalescenza, deve arrabbiarsi per non farmi fare cose in casa. Mi tolgono il tubo dal fianco e rinasco, mi tolgono il primo tubicino della pipì e nel giro di un paio d’ore comincio ad accusare dolori assurdi; telefono in ospedale e mi dicono che ci sta; ancora qualche ora e ho la febbre a 39, richiamo l’ospedale e mi dicono di andare. Analisi, visita, ancora analisi; “Vorremmo tenerla in osservazione per stanotte”; “Sono grave?”; “No”; “Ok, ditemi cosa devo fare e di cosa devo aver paura e mandatemi a casa”. Una settimana di antibiotici, mail tutti i giorni con i rilievi della temperatura e promessa che se risale sopra i 38 accetto il ricovero.

La febbre non sale più; il 29 Luglio mi tolgono il catetere, qualche giorno dopo mi fanno sapere che hanno trovato i miei tessuti puliti, nessuna traccia residua di tumore.

Ricomincio a respirare.

E poi?

E poi ad Agosto sono andata in montagna, massimo 1 ora di camminata su massimo 200 mt di dislivello, a Settembre ero gia alle 3 ore con dislivelli più importanti. A Settembre sono anche rientrata a lavoro e ho ripreso le visite a mamma 1 o 2 volte al mese, a Novembre sono risalita su un aereo. Nel mese di Settembre ho smesso di cambiare l’assorbente a mezzogiorno, ad Ottobre sono passata al 2 gocce x1 al giorno, a Natale ho smesso di portare assorbenti di giorno. Di notte il problema è svegliarmi almeno 2 volte: se lo faccio rimango asciutta, se spengo la sveglia e mi giro, mi bagno un po’. Non importa, insisto, l’abitudine entrerà. Non ho problemi a svuotarmi, seguo i consigli che mi sono stati dati e vado in bagno ad orario. Adesso resisto 1 ora e 30 minuti in ufficio; 2 ore se sono in piedi e mi muovo; 2 ore e mezza da sdraiata, forse 3; ai controlli urologi e oncologici sono contenti.

Allora tutto bene? A famiglia ed amici dico di si, che va tutto bene ma non è esattamente la verità. La verità non sono in grado di spiegarla fino in fondo neppure a me stessa. Non ho i problemi di cui sento parlare tra i neovescicati dell’associazione e con le dovuta attenzione e le tante pause pipì faccio quello che facevo prima, ma è come se non conoscessi più il mio corpo, come se non fossi padrona di me stessa come ero abituata ad essere.

Affronto la situazione con creatività ed attenzione. Sono creativa quando provo i vari angoli per verificare quale va meglio per fare la pipì, o modifico l’orologio per metterlo alla caviglia e auto-fregarmi di notte; ho imparato che  le botteghe e le boutique hanno il bagno, basta chiedere con un sorriso. Sono attenta ad andare in bagno tra due meeting, ad alzarmi scusandomi quando le cose vanno per le lunghe,  a verificare i percorsi o i mezzi migliori in termini di bagno a disposizione quando devo spostarmi; continua a sembrarmi strano, ma lo faccio.

 Non mi chiedo perché proprio a me; se lo IOV mi ha insegnato qualcosa è che il cancro non guarda in faccia nessuno; mi chiedo piuttosto cosa posso fare per migliorare ancora la mia condizione. Stranamente non mi sento neanche una sopravvissuta, mi sento una persona che si è vista improvvisamente di fronte un ostacolo apparentemente insormontabile, un mostro enorme che mi impediva di guardare oltre e che con l’aiuto della famiglia, dell’associazione Palinuro e di un team clinico di tutto rispetto ha risalito pian piano la china. Di strada da fare ce n’è ancora, ma almeno adesso so che posso affrontarla. 

* Patient Blood Management (PBM) in è un sistema di gestione del sangue che, attraverso un approccio multidisciplinare, multiprofessionale e personalizzato, si prefigge di ottenere il miglior risultato per il paziente, soprattutto chirurgico, garantendo la sicurezza della procedura.


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