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Dr.Fabio Calabrò e Dr. Giuseppe Simone

Una “visita costruttiva” al secondo ospedale italiano per numero di Cistectomie

ifoÈ il professore Fabio Calabrò ad accompagnarci all’uscita del “Regina Elena”, dopo una ampia intervista a quattro mani con lui e con il Direttore del Reparto Urologia, Giuseppe Simone. Qui, nell’atrio, prima di congedarci accenna a qualche aspetto storico di questa importante struttura per la cura dei Tumori. Così scopriamo che le origini di questo importante ospedale sono da attribuirsi a Don Luigi Maria Verzé, il fondatore dell’Ospedale San Raffaele di Milano, un uomo che tra mille successi riuscì a fallire, proprio qui.

Tornato a Milano sono poi andato a documentarmi sulla turbolenta vicenda che risale al 1987, quando don Verzé rilevò un albergo abbandonato in zona Mostacciano e in dieci anni lo trasformò in un ospedale modello che tuttavia per mille ostacoli politici fu costretto a svendere affinché la struttura avesse i permessi per poter operare ed essere effettivamente utile alla comunità dei malati. La storia d’Italia è piena di personaggi come Don Verzè, figura chiacchierata e controversa per i suoi eccessi di megalomania, la sua disinvoltura finanziaria e per i suoi comportamenti poco ecclesiastici, soprattutto nei confronti del gentil sesso. Aspetti comunque controbilanciati da una visione innovativa, supportata da energia straordinaria, forte determinazione,  senso dei risultati,   proattività e  altruismo che lo portarono a realizzare opere straordinarie in tutto il mondo, rivolte a coprire i bisogni di cura e di benessere delle persone malate. Una persona con la vocazione del medico e del sacerdote ma con straordinarie doti di politico, sebbene poco politico nella realizzazione dei suoi obiettivi.

Non sta a noi giudicare i difetti che quest’uomo ha avuto nella sua vita. Le testimonianze  positive e tangibili delle cose che ci ha lasciato dovrebbero però riscattarne la memoria, perdonandone gli eccessi e gli abusi. Ai posteri l’ardua sentenza.

Comunque, proprio qui nell’atrio del Regina Elena sopravvivono ancora due importanti testimonianze di quel prete un po’ pazzo e visionario, solo due: una sua frase che campeggia sulla parete subito di fronte all’ingresso dell’ospedale e un monumento (un’opera d’arte) realizzato dallo scultore Salvatore Fiume.

Il nostro arrivo al Regina Elena è stato di prima mattina. Alle 7:45, prima dell’inizio della giornata di lavoro, Laura ed io siamo già nello studio del Prof. Giuseppe Simone e il Prof. Fabio Calabrò è con noi intorno al tavolo. Qui si respira aria d’efficienza così, non perdiamo tempo ed iniziamo subito la nostra intervista.

Tumore della vescica, ma non solo: che approccio avete con il Tumore dell’Alta Via Escretrice?

G. S.

I pazienti con il tumore dell’alta via escretrice sono più rari di quelli con il tumore della vescica, però il nostro è un centro di riferimento sia per quanto riguarda la patologia vescicale che per quella renale: si eseguono mediamente 30 nefrouretectomie l’anno. I pazienti con tumore dell’alta via escretrice meritano un’attenzione particolare perché dal un punto di vista della prognosi, nelle forme avanzate, questa patologia può avere una prognosi anche peggiore rispetto al carcinoma della vescica. Sono pazienti, inoltre, per i quali le terapie perioperatorie sono meno standardizzate, per cui pur avendo la percezione che per loro la terapia neoadiuvante possa essere un vantaggio, non abbiamo sufficienti evidenze scientifiche; ad oggi ci si limita ad eseguire nefrouretectomia, facendo le instillazioni in vescica per prevenire le recidive post operatorie, e nei pazienti con malattia avanzata o malattia linfonodale eseguendo la terapia adiuvante sulla base delle evidenze dello studio POUT. Però questi sono pazienti per i quali bisogna fare ancora molto: è in corso una valutazione delle loro mutazioni e ci sono già delle evidenze che hanno fatto capire che per questa patologia c’è ancora molto da fare, abbiamo in corso anche dei trials grazie ai quali pensiamo di poter offrire una possibilità concreta ed una opportunità terapeutica significativa già nel medio termine.

F. C.

Stiamo attivando, anche in collaborazione con un’industria, uno studio di terapia neoadiuvante, quindi preoperatoria, in pazienti che andrebbero comunque a nefrouretectomia, con la scelta del farmaco basato sulla presenza di determinate mutazioni, cosa che ancora non c’è stranamente, siccome la percentuale di pazienti con mutazione di FGFR è molto più alta rispetto alla bassa via, stiamo mettendo in atto di questo progetto. Dato che i pazienti con alta via escretrice hanno un altissimo rischio di sviluppare nel tempo anche un tumore alla vescica, il 50%, e non si capisce ancora se siano due tumori diversi o se si tratti di un’inseminazione del tumore dell’alta via, abbiamo un gruppo traslazionale in ambito genitourinario con il quale stiamo cercando di seguire nel follow up questi pazienti per capire se effettivamente le caratteristiche della neoplasia successiva in vescica sia classica della bassa via o abbia le caratteristiche di quella dell’alta via. Questo è un dato che ancora non esiste in letteratura.

Si parla tanto di Trimodale: qual è il vostro approccio?

G.S.

Abbiamo dei trials in corso: in realtà la terapia trimodale ancora oggi nella pratica clinica viene offerta a pazienti molto selezionati che in buona sostanza sono quelli che rifiutano categoricamente l’opzione demolitiva. Poiché i risultati della terapia trimodale, nel mondo, sono stati buoni solo al Massachusettes General Hospital, c’è la percezione che i dati non siano del tutto leggibili e replicabili per l’urologo. Peraltro noi urologi vediamo, ahinoi, i pazienti che hanno avuto un insuccesso dalla terapia trimodale, c’è quindi una certa riluttanza ad accettare questa idea, per cui questa è un’opzione che oggi utilizziamo nell’ambito di trials clinici. E ne abbiamo diversi in corso presso il nostro Istituto, per i quali siamo top enroller su scala nazionale.

Cosa ne pensa della possibilità di allargare i criteri di reclutamento?

G.S.

E’ possibile: di trial clinici di pazienti che avrebbero un’indicazione a rimuovere tumore alla vescica e per uno o più motivi rifiutano la chirurgia noi ne abbiamo almeno 3, che combinano farmaci diversi a seconda dello stadio di malattia, perché la vescica può avere l’indicazione ad essere rimossa in uno stadio non muscolo invasivo, quando per es. il BCG non è stato efficace nel tempo, oppure ci può essere una indicazione per una patologia muscolo invasiva, e anche i pazienti con questa diagnosi posso rifiutare la cistectomia radicale e volere un’opzione bladder sparing. L’approccio più corretto in questo momento è far passare tutte queste cose attraverso i trials clinici in modo che il dato sia leggibile e analizzabile al di là degli aneddoti, perché se un protocollo bladder sparing da risultati positivi solo al Regina Elena, ma lo stesso protocollo alle Molinette da un risultato fallimentare, evidentemente abbiamo un problema, abbiamo definito noi male quali sono i parametri se i risultati non sono riproducibili, quindi non è un’opzione che poi può essere inclusa nella pratica clinica. Il trial clinico invece ha una lettura del dato a livello centralizzato, anche per l’interesse dell’azienda che lo promuove, quindi siamo sicuri che avremo un dato pulito.

Quanti persone si rivolgono a voi in un anno per la prima diagnosi?

G.S.

La neoplasia uroteliale si presenta in un primo momento con l’ematuria, per cui la prima porta di accesso all’ospedale può essere o con una visita urologica per sospetta neoplasia vescicale oppure direttamente per eseguire una cistoscopia richiesta dal MMG per un episodio di macroematuria, e i numeri sono quasi sovrapponibili, nel senso che in un anno si fanno più o meno 2500 prime visite e 2500 cistoscopie, per cui l’afferenza è più o meno equamente ripartita tra pazienti che hanno ricevuto una richiesta di visita urologica e poi magari la cistoscopia la eseguiranno dopo se necessario e tra pazienti che vengono già con l’indicazione di fare un esame diagnostico endoscopico.

Avete già un PDTA attivo? E il Team Multidisciplinare?

G.S.

Il PDTA certificato dalla Direzione Sanitaria è solo quello della prostata, quello del tumore alla vescica lo stiamo attivando. Per il Team Multidisciplinare il discorso è un po’ più complesso, stiamo lavorando con la direzione sanitaria affinché i responsabili del DMT vengano individuati sulla base di criteri definiti da un bando.

E’ necessario che ci sia un bando aperto a tutte le figure specialistiche interdipartimentali perché il responsabile potrebbe essere qualsiasi figura abbia voluto dedicare una particolare attenzione nella sua professione all’ambito uro-oncologico, quindi siamo in attesa di formalizzare il responsabile tramite il bando.

F.C.

Per riassumere: il 100% vengono dei pazienti viene visto per la prima volta dall’urologo, dopodiché qui c’è un DMT che si riunisce con cadenza settimanale e lì vengono portati i casi che necessitano di almeno 3 o 4 specialisti, per quelli per i quali c’è bisogno solo di uno specialista abbiamo degli incontri chirurgia/oncologia su base quotidiana e in più c’è il gruppo traslazionale che si riunisce mensilmente in cui si discutono solo i casi dei pazienti con neoplasie del tratto genitourinario. Il team multidisciplinare ha una versione core, ristretta agli specialisti più interessati, urologo, oncologo, radioterapista ed una versione collegiale in cui si rivedono immagini col radiologo, si discute con l’anatomo patologo o col medico nucleare, con l’endocrinologo, lo psicologo. Queste figure non devono essere coinvolte ovviamente nella discussione ordinaria di casi clinici standard.

 

Lei viene definito dai pazienti come una persona che non lascia possibilità di scelta: se si deve operare, si opera. Cosa ne pensa?

G.S. 

In verità credo sia il contrario. Il paziente che viene con una sospetta diagnosi di neoplasia vescicale perché ha avuto ematuria, deve fare una procedura endoscopica e successivamente una resezione endoscopica. Mi pare scontato che non ci sia una scelta alternativa, che fare diagnosi e terapia con questa semplice procedura chirurgica. L’approccio è un po’ più articolato quando si arriva alla malattia muscolo-invasiva e bisogna comunicare al paziente che va rimossa la vescica. Non solo, in alcuni casi, bisognerà dire a una persona ad es. di 78 anni che la vescica non può essere ricostruita. Non dobbiamo dare false aspettative, perché ho visto cosa succede quando viene detto a una persona di una certa età che è possibile optare per la ricostruzione. Bisogna avviare il percorso con le giuste informazioni. Peraltro, non sarò io in prima persona a somministrare il consenso informato, non sarò necessariamente io a rispondere a tutte le domande che verranno in mente al paziente nei giorni successivi al nostro primo incontro in attesa dell’intervento chirurgico. Farà un percorso successivo in cui firma un consenso informato digitale alla presenza di un conoscente, con un medico e un testimone infermiere. C’è anche un’informativa completa sul sito dell’Istituto con tutte le grafiche, in modo tale che le informazioni vengono fornite in maniera esaustiva prima dell’intervento. Poiché è un intervento che ha tantissime possibili complicanze è importante che chi sceglie lo faccia non solo sulla base di quello che gli ho detto io, ma sulla base delle idee che lui si è fatto e che ha potuto discutere con i suoi familiari, con il suo medico di MG, con il suo urologo storico che lo ha seguito prima di noi. Dal mio punto di vista io faccio l’esatto contrario, cioè quando il paziente – prima di andare via – mi dice “mi dica cosa devo fare” gli dico “io non glielo dico…io le do delle informazioni, lei va a casa, le condivide con chi vuole, ci riflette, ne riparleremo nei prossimi incontri”.

F.C.

Bisogna soprattutto dare il tempo alla persona di prendere la decisione, come avviene nelle sperimentazioni: anche io do il consenso e suggerisco di rivederci dopo 5 giorni, così se lo studia, lo fa vedere a chi vuole,  solo quando ha fermamente deciso di partecipare viene da me ed eventualmente mettiamo una firma. Poi torna e magari mi dice che non gli  interessa, che non ha neanche letto e che si fida di quello che gli sto proponendo, oppure mi fa diecimila domande e poi non partecipa. 

Io sono estremamente contento di questa collaborazione con il Prof. Simone perché questa chiarezza è necessaria: lui dice quella che è per lui in questo momento la soluzione migliore, poi il paziente può prendere un’altra strada, e noi lo accudiamo in ogni caso, però questa semplicità espositiva io la trovo straordinaria e da parte di un chirurgo secondo me è obbligatoria.

Parlando di cistectomia radicale, quali sono i vostri punti di forza?

G.S.

Noi non facciamo più procedure a cielo aperto, tutti gli interventi di chirurgia maggiore – non solo quelli dell’urotelio – al netto delle Turv e delle procedure endoscopiche, sono robotici, 100%. Non abbiamo pazienti che fanno chirurgia open o chirurgia laparoscopica.

Quante neovesciche e quante urostomie?

G.S.

L’anno scorso abbiamo fatto circa 140 cistectomie, di cui circa 40 neovesciche. Il tasso è più o meno il 25/30% e non voglio che sia maggiore, perché se fosse più alto significherebbe aver forzato l’indicazione alla neovescica ortotopica. Ai pazienti che ricevono una diagnosi sopra i 75 anni viene sconsigliato fortemente l’opzione della neovescica e poiché una discreta porzione di pazienti che fa la cistectomia radicale non la fa a 50 anni, ma in età più avanzata, è giusto mantenere una proporzione tra il tasso di derivazioni continenti e incontinenti, forzando l’indicazione aumenteremmo le complicanze e probabilmente non avremmo pazienti più soddisfatti.

In merito al recupero funzionale, qui avete a disposizione dei servizi post chirurgia?

G.S.

Più di dieci anni fa avevamo un percorso di riabilitazione con dei fisioterapisti del pavimento perineale, in realtà secondo me è un campo in cui non vale la pena di investire ulteriormente: i dati che abbiamo dalla letteratura sono stati reperiti su pazienti candidati a prostatectomia radicale, ma ritengo che sia possibile applicarli anche alle cistectomie. Il percorso di fisioterapia perineale postoperatoria vale pressappoco zero. Il tasso di recupero della continenza urinaria a distanza è già scritto, fare la fisioterapia impiega del tempo e delle risorse ma se il paziente è destinato a rimanere incontinente rimarrà incontinente. Esiste invece un percorso riabilitativo della funzionalità erettile che sta dando risultati incoraggianti.

Cosa ne pensa dello sfintere artificiale?

G.S.

Quello è diverso, nel senso che sia per la parte protesica, sia per la parte di protesi per l’incontinenza urinaria il percorso andrebbe costruito ex novo.

Considerate però che il problema funzionale dell’incontinenza urinaria è l’abuso dell’indicazione alla neovescica ortotopica: se candidiamo alla neovescica pazienti che fanno l’intervento in giovane età, che hanno una buona funzione erettile o, nel caso della donna, una attività sessuale valida nella fase preoperatoria, l’intervento nerve sparing o sex sparing nella donna può produrre risultati dal mio punto di vista discreti e la nostra valutazione dei pazienti interni che hanno fatto una procedura nerve sparing maschile ci riporta un tasso della preservazione della funzione erettile intorno al 60% che sostanzialmente è vicina a quella della prostatectomia radicale, così come donne giovani hanno conservato l’attività sessuale. Abbiamo una paziente sottoposta a neovescica ortotopica in giovane età che seguiamo da tantissimo tempo che ha avuto una gravidanza con neovescica ortotopica in sede.

Avete qualche vostra unicità?

G.S.

La nostra peculiarità è quella di aver abolito totalmente la chirurgia NON robotica. Lo shift verso la chirurgia mininvasiva è totale. Questo negli anni ha cambiato la gestione post operatoria e la degenza in reparto. La nostra degenza media è 2 giorni, considerando che la prostatectomia radicale ha una degenza di 36/48 ore, la nefrectomia parziale o radicale ha una degenza di 36/48 ore, la cistectomia radicale con la derivazione incontinente ha una degenza di 4 giorni, con derivazione continente 5 giorni, la degenza media complessiva dell’intero reparto è di circa 2 giorni.

F.C.

C’è anche da considerare la disponibilità delle sale operatorie, che per l’urologia è di 5 giorni a settimana, in alcuni giorni per 2 sedute, sia mattina che pomeriggio: non c’è un giorno in cui non si faccia chirurgia. Non ci sono molti ospedali che possono contare su una struttura di questo tipo.

In che misura tenete in considerazione i desiderata dei pazienti in termini di derivazione?

G.S.

Io faccio capire i limiti dell’una e dell’altra soluzione, chiaramente i limiti della stomia sono più facilmente intuibili, mentre forse vale la pena stressare quali sono i suoi vantaggi, perché il paziente magari in un primo momento non li percepisce. C’è della letteratura al riguardo che conferma che in una certa fascia anagrafica la qualità di vita sembra essere sovrapponibile tra i pazienti stomizzati e quelli con neovescica.

 

Come vede la collaborazione con la nostra associazione?

G.S.

E’ un’opportunità non solo per noi che siamo qua, ma spero per i pazienti, perché collaborare con voi significa comunicare al paziente in un modo diverso dal nostro, che può essere ben percepito o mal percepito, ed è il motivo per cui spesso si va a chiedere un secondo parere. Se invece anche un esterno, un non professionista medico, da al paziente le informazioni in maniera un po’ più pratica, più vissuta, più esperienziale questo può rappresentare davvero un grande valore aggiunto.  

“TUTTO E’ POSSIBILE A CHI CREDE”

È con grandissimo onore che abbiamo il piacere di annunciare che proprio oggi inizia la collaborazione tra il Regina Elena e PaLiNUro. Si comincia con le pratiche di accreditamento e poi il nostro volontario Paolo. F. è già pronto per iniziare il suo lavoro in affiancamento del team sanitario.


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